“Papà, facciamo la lotta?”. Sembra essere il massimo divertimento dei miei figli. E del padre. Quattro maschi! Si buttano sul letto e cominciano a fare capriole, a divincolarsi. A misurare la propria forza e quella degli altri.
Noi donne non riusciamo nemmeno a capire che gusto ci possa essere nello spintonarsi, nel piegare l’avversario a suon di muscoli. All’inizio, anzi, ero contraria. Mi pareva che queste contese della domenica mattina fossero un esercizio – controllato, rituale – di violenza.
So che è inutile, illusorio, ma io vorrei evitare ai miei figli di entrare in contatto con la violenza; quella del mondo che vedono sui giornali e alla televisione e quella che abbiamo dentro di noi.
Ma con il tempo mi sono resa conto che forse non è così. Quante forme di lotta ci sono nella nostra vita, anche la più civile e pacifica! Per dire: oggi Mario (tre anni) non voleva salire le scale per andare a prendere i giocattoli. “Conto fino a tre, poi lasciamo perdere”, ha detto mio marito che lo accompagnava. Uno, due… li ho visti contare mentre si guardavano negli occhi. In quegli istanti tra loro si consumava una lotta perfino più dura di quella che richiede la forza muscolare. E che brutalità si nasconde nelle piccole e casalinghe partite di scacchi (non a caso si dice “ti mangio”).
Sì, forse alla fine ho capito cosa spinge i quattro maschi di casa a lanciarsi in quelle capriole sul letto che tanto ricordano le scaramucce tra i giovani cervi viste nelle puntate di Quark. Non è tanto la violenza, ma il bisogno di misurare se stessi e gli altri. Di imparare a farlo sul materasso morbido di camera da letto prima di essere costretti a farlo nella vita di tutti i giorni.
E in fondo è meglio se l’uomo con cui devi lottare è il padre che nello stesso tempo ti protegge. Ma soprattutto è così più semplice affrontarsi con la forza dei muscoli. Sarà poi il momento di usare altri mezzi molto più sottili. In fondo più duri, perché lasciano ferite assai più dolorose.
il Fatto Quotidiano, 29 Settembre 2014