Quanto scrivo vuole essere un piccolo riconoscimento ad una delle figure più importanti, ma anche meno valorizzate, che il nostro sistema scolastico e di assistenza sociale possiede: l’educatore. Professione di cui si parla poco, ma che risulta essenziale per i bambini e gli adulti con disagio fisico e/o psichico.
Sono stato, io per primo, educatore per tanti anni e conosco bene gli inconvenienti del mestiere, un esercito di persone qualificate sottopagate e spesso ai margini delle scelte decisionali che riguardano il benessere dei loro assistiti. Basti pensare a come, nel corso degli anni, nelle scuole gli educatori e gli insegnanti di sostegno cambino per necessità burocratiche, non garantendo quel che, per il bambino, dovrebbe essere un diritto ossia una o più figure educative di riferimento che assicurino costanza nella relazione e nella tipologia di intervento. Ogni nuovo anno scolastico educatori e bambini si possono trovare facilmente in situazioni relazionali diverse dal precedente, dovendo partire da zero.
Lavorare con la disabilità non è semplice, le emozioni del professionista (tale è e tale deve essere considerata la figura dell’educatore) si sviluppano lungo tre direzioni in costante collegamento tra loro:
- la fatica del lavoro in sé;
- le emozioni suscitate dalla disabilità in sé;
- le emozioni suscitate dalla propria capacità di stare con quel tipo di disabilità.
Quando si parla di emozioni, bisogna essere in grado di riconoscerle e di saperle gestire e, se per la maggior parte delle persone questo può essere purtroppo un optional, chi lavora nelle relazioni di aiuto non può permettersi di trascurare questo aspetto o lo stress porterà ad una demotivazione tale da non consentire un adeguato svolgimento delle proprie mansioni (burn-out).
In ogni relazione di aiuto c’è una persona bisognosa di quell’aiuto ed un’altra che deve essere in grado di offrirlo. Non è un rapporto paritario, in termini di potere, ma lo scopo è ridurre, quanto più possibile, questa asimmetria. Molto cambia a seconda dei bisogni di chi si trova a chiedere un aiuto, ma l’obiettivo rimane sempre un esercizio del potere che costituisca un empowerment e una risorsa per l’altro, mai una costrizione.
Prendersi cura nell’ambito della disabilità è dare la possibilità ad una persona, qualsiasi sia il suo livello di compromissione, di essere quel che può essere, partire dal suo deficit per pensarlo come individuo. L’educatore si fa strumento di elezione perché il suo assistito possa esperire, sperimentare, sentirsi protetto a partire dalla disabilità che lo rende unico. Il disabile, a quel punto, può essere ciò che può, comunque parte attiva in una relazione della quale non è mero usufruitore.
Martin Heidegger, filosofo tedesco, nel suo libro “Essere e Tempo” a proposito della dimensione della cura scriveva :”L’aver cura può in un certo modo sollevare gli altri dalla cura, sostituendosi loro nel prendersi cura, intromettendosi al loro posto… Gli altri risultano allora espulsi dal loro posto, retrocessi, per ricevere, a cose fatte e da altri, già pronto e disponibile, ciò di cui essi si prendevano cura, risultandone del tutto sgravati… Gli altri possono essere trasformati in dipendenti e in dominati, anche se il predominio è tacito e dissimulato”
Questo è quel che l’educatore è chiamato ad essere ben attento a non fare, sostituirsi nei bisogni e nelle scelte di un soggetto in difficoltà, altrimenti si blocca la possibilità della persona di esperire da sé anche quello che è in grado di esperire. Cura è protezione, non sostituzione, essa non deve limitare l’autonomia, ma agevolarla.
Ecco perché caro educatore, io so quanto sia difficile tutto questo, so quanto di tutto quello che fai non ti venga riconosciuto, so come il sistema ti remi contro, ma so anche quanto sia necessario il tuo intervento ed in esso sta tutta la dignità che nessuno potrà mai toglierti.