Il 31enne aveva "ematomi, gonfiori e difficoltà a camminare" prima della convalida del suo arresto. Il geometra morì nel reparto detentivo dell’ospedale romano Pertini sei giorni dopo il suo fermo per droga. Prevista per fine ottobre la sentenza d’appello
Una lettera inviata da un avvocato che dice di aver visto Stefano Cucchi “gonfio e provato” prima dell’udienza di convalida del suo arresto. È la novità della seconda udienza del processo d’appello che per la morte del geometra romano arrestato per droga nell’ottobre 2009 e morto una settimana dopo nel reparto detentivo dell’ospedale romano Pertini. Sul banco degli imputati sei medici, tre infermieri e tre agenti della Polizia penitenziaria. Solo i medici furono condannati in primo grado; gli altri assolti. Alla scorsa udienza, però, il procuratore generale ha chiesto di ribaltare la sentenza e di condannare tutti gli imputati.
È stato l’avvocato di parte civile, Fabio Anselmo, a leggere in aula la lettera a lui inviata dopo il processo di primo grado da una collega che vide Cucchi fuori l’aula dell’udienza di convalida. Lei, l’avvocato Maria Tiso, vide Stefano arrivare in aula con “il volto, ed in particolare gli occhi, estremamente arrossato e gonfio” e con “un’aria molto provata“. “Stefano, nel dirigersi in aula, aveva difficoltà a camminare; appariva come irrigidito nella coordinazione della deambulazione e se non ricordo male, non sollevava del tutto i piedi da terra ma sembrava trascinarli in avanti ad ogni passo”, scrive l’avvocato. In pratica, secondo la parte civile (che nel processo resta solo per la posizione degli agenti, avendo ritirato la sua costituzione per medici e infermieri dopo aver concordato un risarcimento), aveva i segni di un pestaggio che, secondo l’avvocato Anselmo, “non preordinato ma d’impeto” subito prima dell’udienza di convalida e non, come sostiene il Pg Mario Remus, dopo quell’udienza. Entrambi, quindi, concordano con la tesi del “pestaggio”, ma non concordano sugli orari.
La certezza della parte civile è che Stefano “è morto di un dolore costante e crescente dovuto al pestaggio, è morto di tortura per le sofferenze che gli sono state inflitte – continua il legale – Dire che non è morto per le lesioni è ipocrita. Lui ormai non può dire chi è stato a pestarlo, dobbiamo dirlo noi. Pare come il gioco ‘lo schiaffo del soldato’, dove l’autore non viene scoperto ma rotea solo il dito”. L’avvocato di parte civile fa poi riferimento a Samura Yaya, il detenuto gambiano che ha detto di aver sentito il pestaggio, un racconto “che è un atto d’accusa formidabile nei confronti degli agenti: è figlio della disperazione il sospettare che la sua testimonianza sia stata fatta in cambio di benefici giudiziari che poi ha effettivamente ottenuto – ha concluso Anselmo – Samura è credibile, attendibile e genuino”. A fine ottobre la sentenza d’appello.