Avevo promesso che mi sarei occupato del rapporto Grillo-base Renzi-base per i prossimi 4 post. Lo farò, il secondo è già pronto. Oggi non riesco però a tacere rispetto a quello che in questi mesi – di tanto in tanto – si vede nelle piazze di alcune nostre città. Ma più ancora vorrei condividere con voi l’orgoglio per la mia Torino. Per come ha mostrato, ancora una volta, di saper produrre al momento opportuno robusti anticorpi contro i fascismi e le sociofobie di qualsiasi forma, ancorché agghindati da difesa per la libertà d’opinione (una rapida scorsa delle fonti storiche offre robuste prove a sostegno dell’ipotesi che, ironicamente, ogni omicidio della libertà è sempre stato fatto all’ombra di un proclama in difesa della libertà).
Mi riferisco alla reazione che i torinesi hanno avuto ieri pomeriggio in piazza Carignano, quando un gruppo delle cosiddette “sentinelle in piedi” manifestava – fermo e in silenzio – contro il ddl Scalfarotto, le sentenze pro adozioni a coppie omosessuali e i diritti alle coppie di fatto (per la cronaca, tensioni e scontri si sono registrati anche a Bologna e Aosta, come riportato dal Fatto).
A differenza del solito, non intendo occuparmi della materia in quanto sociologo. Ma in quanto cristiano. Se è vero, infatti, che sul sito delle sentinelle si dice che il movimento è apolitico e aconfessionale, è altrettanto evidente che più di un indizio lascia legittimamente supporre che in esso non sia marginale la componente di coloro che credono in Gesù Cristo come figlio di Dio (dagli slogan ai libri tenuti in mano).
Comincio col dire che opporsi soggettivamente all’estensione di un diritto è come pretendere che non si venda più la Nutella perché io sono in dieta…
A parte simili incongruenze logiche, a volte ho il dubbio che tutte le persone – laiche e religiose – che hanno contribuito, anche indirettamente, alla mia educazione cristiana fossero in errore. Lo dico con rammarico, ma non può essere altrimenti. Da loro, infatti, ho imparato che Cristo è amicizia, allegria, anima.
L’amicizia che, ad esempio, legava Gesù agli apostoli. Un’amicizia così profonda da non risentire della diversità e dei limiti di ognuno, ma anzi capace di trasformare il male in bene: nel tradimento (Giuda), nel rinnegamento (Pietro) e nell’incredulità (Tommaso).
L’allegria dei bambini, che agli occhi degli adulti erano un fastidio da scacciare, ma che Gesù indica come degli esempi da seguire per entrare nel Regno dei Cieli (Mc 10,13-16; Mt 19,13-15 e Lc 18,15-17). Quanti di quei bambini avevano una famiglia “normale”? Pochi, e qui ci serve per un momento la sociologia. Sappiamo con certezza, infatti, che la famiglia che oggi definiamo “normale”, statisticamente normale non lo è per nulla, perché è un’invenzione piuttosto recente di una parte alquanto limitata dell’umanità, e perché ancora adesso non è la forma prevalente di unione nel mondo.
L’anima, che Cristo, nei tre anni di vita pubblica, educa all’amore incondizionato. Lo fa raccontando alle folle accalcate ai piedi di un’altura quale deve essere il nuovo atteggiamento da tenere verso Dio, verso se stessi e verso gli altri. È il cosiddetto “discorso della montagna” (Mt 5-7), che si apre con una delle pagine più potenti di tutto il Nuovo Testamento, la proclamazione delle beatitudini (Mt 5,1-12). Leggerle, e rileggerle, e poi leggerle ancora, porterebbe a una maggiore prudenza chi ha fatto e fa sistematicamente di Cristo un feticcio a sostegno delle proprie chiusure e, che spesso è uguale, delle proprie fobie.
Fino ad allora, ahimè, vale quello che diceva Pascal: “poiché non si è potuto fare in modo che ciò che era giusto fosse anche forte, spesso s’è fatto in modo che ciò che era forte fosse anche giusto”.