Amante fino al 1903 di Gabriele d'Annunzio, la ricca ereditiera milanese ha avuto nella vita un unico scopo: diventare un'opera d'arte vivente. Secondo Jean Cocteau "aveva saputo crearsi un ‘tipo’ all’estremo. Non si trattava più di piacere o non piacere, o tantomeno di stupire. Si trattava di sbalordire”
Chi pensasse di aver già visto molto in materia di stravaganza, fino all’8 marzo 2015 ha una missione in terra veneziana. Scendere alla fermata Sant’Angelo, recarsi fino a Palazzo Fortuny e immergersi tra gli allestimenti de La Divina Marchesa: Arte e vita di Luisa Casati dalla Belle Époque agli Anni folli. Basterà uno sguardo a oltre un centinaio tra dipinti, sculture e fotografie di grandi artisti del tempo (ma anche abiti e gioielli) per comprendere come il mondo di Luisa Casati Amman, meglio conosciuta come Marchesa Casati, possa trascendere in pochi attimi i cliché della ricca annoiata, per entrare a pieno titolo in quello di chi plasmò la propria esistenza fino al raggiungimento di un solo scopo: diventare un’opera d’arte vivente. Nel bene e nel male direbbero molti, ma questa è una storia da assistere liberi da ogni giudizio.
La vita di una fra le più ricche ereditiere milanesi, sposata al Marchese Casati nelle vesti della borghese lombarda, ma pronta a spogliarsene per entrare nelle parole de Il Piacere di Gabriele d’Annunzio, suo più celebre amante fin dal 1903: “Bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita di un uomo di intelletto sia opera di lui. La superiorità vera, è tutta qui”. In breve tempo la metamorfosi fu compiuta: capelli effetto fiamma (degni di Coré, regina degli Inferi, soprannome donatole da d’Annunzio stesso), occhi bistrati e pupille feline rese enormi da colliri alla belladonna. Alta e sottile, con pelle adamantina e intenso maquillage iniziò il suo percorso destinato a portare l’arte dentro e fuori dalla sua persona. Un cammino fatto di luoghi precisi: non a caso proprio Venezia, mecca di artisti scelta per lungo tempo come residenza e location di feste passate alla storia. Lì avvenne l’incontro con Giovanni Boldini, che la immortalò in quel celebre ritratto esposto al Salon parigino del 1909, tanto da portare la fama della nobildonna anche Oltralpe. E poi via, in un dedalo di eccentricità: l’affitto di Palazzo Venier dei Leoni, ora museo Peggy Guggenheim, nel quale si installò in un esotismo fatto di fauna e flora rarissima (come il ghepardo con il quale usava passeggiare di notte in piazza San Marco, vestita di un solo manto in velluto; o uno dei tanti pitoni a volte “indossati” intorno al collo).
Amante di masquerade portate all’eccesso, fu per la realizzazione di alcuni fra i suoi più celebri costumi che rafforzò il già stretto legame con Leon Bakst, costumista dei magnifici Ballet Russes tanto in voga all’epoca (dei quali anche Coco Chanel fu fedele appassionata). Se il suo primo, celebre travestimento per un ballo a St. Moritz venne creato proprio da Bakst, ancora lui fu autore dell’aureo costume orientale ideato per una festa indopersiana e poi realizzato da Paul Poiret, apice della sartorialità parigina. O ancora la lunga tunica “rubata” allo spettacolo Le Dieu Bleu, indossata con copricapo svettante e tacchi tali da renderla alta oltre 2 metri, con il quale venne ritratta in compagnia dello stesso Mariano Fortuny (le cui celebri tuniche plissé raggiunsero il successo anche in Francia proprio tramite la presenza di Luisa nelle cronache mondane di Parigi).
Amante di personaggi singolari, non entrò mai nei panni di una comune femminilità: fu Regina della Notte e Cesare Borgia, ma anche candida Arlecchino a quel Ballo Longhi per il quale ottenne l’uso di Piazza san Marco: una serata all’insegna del tango, ballo proibito a Roma per ordine papale. Dedita all’occultismo e amante della magia, come sottolineato dal dandy Robert de Montesquiou (anch’egli ritratto da Boldini), da lui acquistò il magnifico Palais Rose a Parigi poi battezzato Palais du rêve, dove organizzò il suo ultimo ballo travestita come l’esoterista e alchimista conte di Cagliostro. Ma il turbinio di narcisismo era ormai fatale, la spirale virtuosa di musa d’arte iniziava già invertirsi nel circolo vizioso che l’avrebbe portata alla rovina. Non senza aver collezionato infinite opere sulla propria persona: da quelle del suo “ritrattista” ufficiale Alberto Martini a Romaine Brooks, come icona futurista fra Giacomo Balla e Umberto Boccioni, scatti di Adolph de Meyer e Man Ray. Ma anche dipinta da quell’Augustus Edwin John che la aiutò quando, rifugiatasi a Londra dopo aver venduto ogni pezzo della sua collezione, visse grazie all’aiuto di amici e sostenitori, anch’essi collezionati nell’arco di una vita con quel fascino ben descritto dal suo confidente Jean Cocteau: “Aveva saputo crearsi un ‘tipo’ all’estremo. Non si trattava più di piacere o non piacere, o tantomeno di stupire. Si trattava di sbalordire”.