Nelle sale italiane dal 9 ottobre l’esordio granitico del regista sloveno. Vincitore del Premio Feodora alla 70ª Mostra di Venezia, selezionato dalla Settimana della Critica e candidato all’European Award, Biček dipinge un affresco realista e severo delle relazioni umane all’interno del sistema scolastico
“La morte di un uomo è meno affar suo di quanto non lo sia per gli altri”. La frase di Tonio Kröger, protagonista dell’omonimo racconto di Thomas Mann – qui vero e proprio filo letterario – picchiettata con il gesso sulla lavagna dal supplente di tedesco, l’austero professor Zupan, piomba nei cuori dei suoi studenti liceali come un macigno in una scena chiave.
Siamo in una scuola superiore slovena, ultimo anno. L’improvviso quanto inspiegabile suicidio di una studentessa dallo sguardo triste ha ghiacciato l’intero istituto, gonfiando di risentimento alcuni studenti. Basta che Sabina sia stata sorpresa a suonare il pianoforte davanti a Zupan, un giorno prima di morire, e che il professore non sia morbido e prevedibilmente compassionevole con i ragazzi durante la difficile elaborazione del lutto nella comunità scolastica – o lascivo come tutto il corpo docente – per fare dell’uomo un capro espiatorio ad hoc.
Rok Biček immerge completamente la sua prima opera in un acquario sociale costruito nell’essenzialità di un liceo. Niente esterni né sguardi alle case dei ragazzi, né scene in strada, ma un racconto essenziale concentrato tra le mura scolastiche, dove a farla da padrone è il conflitto tra gli studenti e lo scomodo supplente. “Limitando la scena ho evitato di dire troppo su altre cose. Abbiamo scelto di concentrarci sul conflitto generazionale che si svolge nella classe come fosse una specie di ring”. È stata la spiegazione del regista e sceneggiatore sulle decisioni d’ambientazione nel corso della presentazione italiana a Roma. “I due pugili combattono sul ring, ma fuori dalla scuola non c’è lo stesso conflitto. Mi piace raccontare la storia in modo da non dare tutte le informazioni così lo spettatore, guardando in maniera attiva, si costruisce dei suoi mondi immaginari a riguardo. Ho voluto lasciare fuori dal film quello che accade fuori dalla scuola, isolandola. Infatti nelle inquadrature che riprendono anche le finestre arriva sempre e solo una luce abbagliante dall’esterno”.
Il senso claustrofobico che viene fuori stringe una narrazione estremamente razionale e quasi teatrale. Gli studenti montano in risentimento tutto il dolore e l’impotenza del poi. La perdita di senno sfocerà in accuse fuori luogo di nazismo e manifestazioni di dissenso contro Zupan, fino a sconvolgere tutto il corpo docente. Gli eventi raccontati da Biček sono una summa di episodi da lui stesso vissuti a scuola – e la location è proprio la stessa dove ha studiato il regista – rifiniti in una sceneggiatura implacabile che parte in sordina, ma si sviluppa in un crescendo drammatico trascinante, a dispetto di un ritmo del montaggio cadenzato ma tesissimo, che superficialmente potrebbe essere interpretato con un solito “lento”.
La lezione di questo esordiente ventinovenne, densa come l’esperienza di un autore maturo, sboccia in caso sociologico intorno alla bomba scolastica ordita dal branco e innescata dal suicidio iniziale. Igor Samobor indossa il ruolo del suo Zupan in maniera eccelsa. A metà tra genio dell’insegnamento e sadico adulto percorre le scosse dei ragazzi (veri studenti esordienti ottimamente diretti) in una storia che evita retoriche blande rinforzandosi invece tra riflessioni dure e uno stile registico ordinato come un taglio chirurgico. Pur nella sua estraneità, Class Enemy è pasoliniano per la forza dei temi e i linguaggi densi di realismo utilizzati. Ma anche per l’affiancamento di un grande attore a un gruppo di giovani talentuosi e di primo pelo. L’esordio distribuito da Tucker Film non sarà campione d’incassi con le sue 25 copie italiane, ma esempio lucidissimo di piccolo grande cinema.