Baja California. Un posto fuori dal tempo dove passato e presente si fondono in un’atmosfera di epoca cristallizzata. Un territorio vario e complesso, dove non è difficile immaginare scenari di avidi conquistadores a caccia di ricchezze, di monaci zelanti che costruiscono missioni nel deserto, di rockstar allucinate che ambientano epiche canzoni in misteriosi hotel a metà fra leggenda e realtà.
Atterrando nel punto più estremo del Paese, Los Cabos, si viene subito a conoscenza di quello che qui chiamano Land’s end, la fine della terra. Un magnificente arco di roccia situato a pochi minuti di navigazione dalla città, ideale punto di incontro fra il Mare di Cortez e l’Oceano Pacifico. Meta obbligata per foto ricordo e testimonianze di passaggio, impossibile non vederlo quando si esce alla volta di qualsiasi punto di immersione nei paraggi. Il barcaiolo puntualmente ve lo indicherà orgogliosamente.
Ma siamo solo di passaggio in questa cittadina fin troppo americanizzata. Il nostro viaggio ha uno scopo ben preciso e sappiamo come ottenerlo. Noleggiando un’auto e guidando alla volta di La Paz.
La città trae origine e nome dal primo insediamento, risalente al 1596 per opera di Sebastiàn Vizcaìno. Fu lui a nominare la baia “Bahìa de la Paz”, baia della pace. Essa si affaccia sul Mare di Cortez, un mare che abbiamo scoperto e verificato direttamente essere estremamente variegato e popoloso.
La cittadina è la capitale della Baja California Sur, ma non vi si percepisce lo stesso frenetico colonialismo statunitense che permea Cabo San Lucas. Si ha meno l’impressione di un’influenza estera, e si capisce che pur nel pieno della funzionalità turistica e della volontà di divenire un centro organizzativo e politico, La Paz intende mantenere la propria identità.
Prendiamo alloggio in una posada, prepariamo attrezzature, macchine fotografiche e accessori da mare vari e ci precipitiamo di gran carriera al centro immersioni dal quale salperemo alla volta dei punti di nostro interesse. Il diving center prescelto ci è sembrato ideale per le nostre esigenze.
Siamo eccitatissimi e non vediamo l’ora di levare le ancore alla volta de Los Islotes, la nostra desideratissima meta.
Los Islotes, gli isolotti, sono una costellazione di scogli poco lontano dalla terraferma, su cui vive indisturbata (se non da noi curiosi) una colonia di circa trecento esemplari di lobos, leoni marini. Adulti, cuccioli, mamme, giovanetti. È il mese di agosto e i piccoli sono autonomi abbastanza da tuffarsi e stare in acqua sotto la mera supervisione dei genitori. Stagione ideale per chi li voglia osservare nel pieno della loro gaiezza.
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I lobos si sentono prima ancora di avvistarli. Il loro guaito inconfondibile si spande per l’aria da decine di metri di distanza. E finalmente eccoli. Sono -naturalmente – favolosi: teneri, buffi e curiosissimi. Prima di quanto possiate immaginare siamo pronti per tuffarci in acqua. Il briefing è stato breve e chiarissimo, d’altronde: “Lasciateli avvicinare senza timore, guardateli e fotografateli quanto volete, ricordatevi che sono sempre animali selvatici e divertitevi rispettandoli e senza farli spazientire o innervosire. Non sono aggressivi tuttavia hanno la dentatura di un cane grande perciò meglio non arrischiarsi a sperimentarne il morso.” L’immersione in sé è talmente elementare, poi: 5 o 6 metri di profondità massima, e via, alla ricerca dei leoni che nuotano! Assistiamo a scene estremamente divertenti di vario genere. Un giovane esemplare gioca con una pietruzza, in apnea, lanciandola cadere dall’alto e andandosela a riprendere nuotando verso il fondo. Non si stanca di questo spasso se non dopo un bel po’ di minuti, e fortunatamente per noi quindi, tanti scatti delle nostre macchine fotografiche.
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Altri giovani giocano e si rincorrono, sempre con un occhio curioso verso di noi; taluni ci puntano a tutta velocità salvo poi schivarci deviando dalla rotta di collisione al vero ultimo secondo. Adrenalina pura. Perché sono comunque animali grandi e molto veloci. Paura no, quella no. Ma un certo nonsoché lungo la schiena scorre. Per non parlare di quando, poi, il volo radente lo fa il leone supremo, quello grandissimo, che si suppone essere il padre. “Abbaiando” va richiamando all’ordine i suoi piccoli, e controlla che questi intrusi che fanno bolle non facciano gli spiritosi con la loro preziosa prole. Ogni tanto ci sorvola radente la testa, e quella sì che è una collisione che ci auguriamo non avvenga! Perché il “papà” come lo chiamano i ragazzi del diving, è veramente enorme. La mamà è di misura grande, ma normale. Il papà è extra large: meglio non discuterci. C’è una grotticina, incastonata negli scogli, che dà asilo ad alcuni dei piccoli che vi si aggregano per giocare. Acquattandoci sul fondo cerchiamo di rubare qualche foto ai loro divertimenti privati, non senza venire, come sempre, studiati da vicino dai nostri giovani ospiti. Vengono a controllare cosa sono quelle strane cose che abbiamo in mano, vengono a tirare le sagoline che tengono i flash, si interessano molto a tutto quello che ci riguarda, dopodiché tornano alle loro faccende. Finché, aiuto! Arriva babbone urlando come un matto. Abbaia in modo incontrollato, i piccoli schizzano fuori dalla grotta, e anche noi ci apprestiamo ad uscirne in tutta fretta. Fra di noi abbiamo tradotto i suoi guaiti con quelli di qualsiasi padre esasperato dalla vivacità dei propri bambini: “Uscite subito! Questa volta ho perso la pazienza, fuori di qui, quante volte ve lo devo dire che non voglio che stiate soli con “quelli”?!!?” ma qualsiasi cosa fosse, non vogliamo contribuire all’aumento della sua ira funesta.
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Dopo questo tuffo pieno di emozioni ed esplosioni di tenerezza (i giovani che giocano, si corteggiano, si mordicchiano e poi si fanno le coccole) difficile lasciarsi colpire da qualcosa d’altro.
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Le nostre foto suscitano l’interesse festoso di amici e conoscenti che si candidano per tornare con noi nel pieno della stagione calda, alla prima occasione utile.
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Quale migliore scusa per visitare di nuovo quello che Jacques Cousteau ha chiamato “l’acquario del mondo”?