A Voghera, due ragazze hanno rapporti sessuali non protetto. Decidono di rimediare con la cosiddetta “pillola del giorno dopo”.
Si rivolgono, quindi, com’è ovvio, al Pronto Soccorso, una struttura pubblica che deve garantire il diritto alla salute delle persone, secondo le loro volontà e richieste, quando non violino una legge dello Stato.
E, in questo Stato, il farmaco richiesto dalle ragazze è perfettamente legale. Esse contano di trovare in quel posto di cura di uno Stato laico assistenza materiale se non anche morale.
Trovano, invece, un’infermiera che prova a “convincerle a rinunciare e a salvare così vite umane”. Lo fa “per motivi di coscienza”.
La “moral suasion” di questa zelante paladina “della vita” pagata con i soldi di tutti i contribuenti di quello Stato laico va a buon fine: le pazienti si rassegnano a non ricevere la cura richiesta. In un ospedale pubblico. Di fatto, ella nega loro l’accesso ad una struttura di cura di uno Stato che garantisce il diritto all’autodeterminazione di tutte le persone. Anche delle giovani donne.
L’infermiera non ha le idee chiarissime sulla differenza tra contraccezione d’emergenza e farmaco abortivo. Non conosce nemmeno gli obblighi professionali che comporta il suo ufficio pubblico. Ma non importa; in alcuni casi, “la coscienza” è come la pancia, secondo quell’antico adagio: non vuole pensieri. Più che altro, non tollera il pensiero.
Questa signora, che ha accidentalmente confuso, nell’esercizio della sua professione statale di cura, l’Italia con uno stato di coscienza è stata “segnalata alla direzione sanitaria”. E’ il minimo. Ma non è sufficiente.
La violazione di norme istitutive di diritti dei cittadini non prevede solo un illecito disciplinare, ma anche uno penale, specie da parte di chi quei diritti è tenuto a garantire; perché, per esempio, è investito di responsabilità pubbliche.
Nel nostro codice penale, all’art. 328, è previsto un reato intitolato: “Rifiuto di atti d’ufficio”, per cui “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni [….] di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.”
In forza di questa norma, la Cassazione, lo scorso anno, ha condannato un medico che, mentre era in servizio di guardia medica in un reparto di ostetricia e ginecologia, chiamata ad assistere una paziente che era stata sottoposta ad intervento di interruzione volontaria di gravidanza mediante somministrazione farmacologica, si era rifiutata di visitarla e di assisterla in quanto obiettrice di coscienza, nonostante le richieste di intervento dell’ostetrica e i successivi ordini di servizio impartiti dal primario e dal direttore sanitario, costringendo il primario stesso a recarsi in ospedale per intervenire d’urgenza.
La difesa del medico era naturalmente fondata sulla norma della legge 194\1978 (regolatrice dell’interruzione volontaria di gravidanza) che istituisce la nota “obiezione di coscienza” del sanitario (art. 9).
La Corte ha sancito principi fondamentali e inequivocabili: la norma in questione “esonera il medico obiettore dal partecipare alle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, ma non lo esime dal prestare la propria attività nelle fasi successive per evitare ogni possibile rischio per le condizioni cliniche e di salute della donna.”
Peraltro, rammentano in maniera preziosa i Supremi Giudici, il c.d. diritto all’obiezione “trova il suo limite nella tutela della salute della donna, tanto è vero che l’art. 9, comma 5, della legge citata esclude ogni operatività all’obiezione di coscienza nei casi in cui l’intervento del medico obiettore sia ‘indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo’ ”.
In pratica, conclude perentoriamente il Collegio, “il diritto dell’obiettore affievolisce, fino a scomparire di fronte al diritto della donna in imminente pericolo a ricevere le cure per tutelare la propria vita e la propria salute.”
Ce n’è abbastanza per sperare che alla Asl di Pavia si adottino subito tutti i rimedi del caso verso la protagonista di questa vicenda buia e desolante. A partire, magari, dalle scuse verso quelle ragazze.
Per evitare, magari, che, da oggi in poi, nell’immaginario collettivo, accanto alla figura della casalinga di Voghera, si sedimenti anche quella dell’infermiera di Voghera.