Occorre aumentare la produttività, soprattutto quella del lavoro. Quante volte lo abbiamo sentito negli ultimi anni. Ma che cosa significa aumentare la produttività? In economia la produttività può essere definita, in via di prima approssimazione, come il rapporto tra la quantità di output e le quantità di uno o più input utilizzati per la sua produzione, tipicamente capitale e lavoro. Viene calcolata con riferimento alla singola impresa, all’industria o più in generale alla nazione. Che cosa significa allora aumentare la produttività del lavoro. Vediamolo dapprima con riferimento ad una singola impresa, ma allo stesso modo funziona per uno Stato.
Un aumento della produttività del lavoro si ottiene prevalentemente in due modi:
a parità di ore lavorate e di loro costo (input) si aumenta la quantità di beni o servizi (output). Il rapporto tra produzione e costo del lavoro aumenta;
a parità di produzione (output), diminuisce il costo del lavoro, sia come ore lavorate che come costo delle stesse (input). Ancora una volta il rapporto tra produzione e costo del lavoro aumenta.
Il costo del lavoro tende a diminuire sia come numero di lavoratori sia come costo degli stessi. Si badi bene che la diminuzione del costo del lavoro può anche passare per una crescita reale negativa dello stesso. In entrambi i casi però l’occupazione non aumenta.
Se estendiamo l’aumento della produttività come sopra delineato a livello di sistema il risultato finale è un aumento della disoccupazione (pochi nuovi assunti), con conseguente meno ricchezza a disposizione della nazione (che invecchia) e che apre la strada ad una flessione dei consumi interni.
In entrambi i casi la produttività aumenta, ma la nazione si impoverisce. Si dirà che molta della produzione di quella nazione (poniamo l’Italia) è destinato all’export. Nella realtà che stiamo vivendo e con i paesi emergenti che continuano ad emergere e che hanno una produttività del lavoro per noi inavvicinabile, è impossibile basarsi su questo aspetto per competere a livello internazionale. Si dirà ancora che occorre puntare sulla qualità dei prodotti. E qui siamo al paradosso. Perché portando la produttività del lavoro all’estremo (così si capisce bene di che cosa stiamo parlando), si arriva ad un mercato del lavoro che non assorbe nuovi lavoratori che quindi non possono formarsi ed aumentare il livello qualitativo della produzione. Ovviamente non sto sostenendo che un aumento della produttività del lavoro sia negativa. Tutt’altro.
Se poi a questo uniamo il fatto che in Italia il lavoro è tra i più tassati al mondo (dall’Irap a carico delle imprese che sfavorisce un aumento dell’occupazione, al cuneo fiscale elevato), il gioco è fatto. L’Italia non ha alcuna chance di competere a livello internazionale, ne tantomeno può far conto su di un aumento dei consumi interni. Come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia, il declino non è ineluttabile. Ma, aggiungo io, bisogna fare presto.
Occorre riportare il lavoro al centro del dibattito di politica economica, sgravando lo stesso di qualsivoglia barriera che di fatto impedisca un aumento dell’occupazione. Non si sta parlando dell’art. 18, ma di una seria riforma del mercato del lavoro. E’ un’altra cosa. Occorre che la politica aziendale favorisca i lavoratori (asili nido, buoni libro per i figli, polizze sanitarie etc), in modo che i lavoratori si sentano parte dell’azienda per la quale lavorano.
Contemporaneamente occorre però rivolgere l’attenzione alla creazione di posti di lavoro in settori diversi da quelli tradizionali in modo da garantire un’adeguata crescita occupazionale (ben lo ha capito il presidente Usa). In questo campo molto potrebbe fare il Governo favorendo la piccola e media impresa e gli investimenti in innovazione e ricerca.