Ti scrivo questa lettera per dirti che a te in fondo ho dedicato gli anni, tutto, persino un romanzo (ma è il meno che potessi fare). Ho letto il tuo diario quando frequentavo la quarta elementare e già avevo imparato il gergo deglieroinomani. Con mia cugina giocavamo ai drogati. Le siringhe erano matite spuntate. Ti ho trovata in una libreria di Terni, la più grande, eri dentro una vetrinetta girevole. Avevo imparato a memoria il tuo diario, lo slang, sapevo cosa fossero le spade, la scimmia, i fatti di ero. Li riconoscevo, grazie a te. Per strada mia madre mi trascinava un po’ seccata perché tutti i balordi per terra erano sacrifici su cui vegliare, li guardavo da una parte ora dall’altra, cercavo di capire, non capivo mai niente.
Erano gli anni ’80, l’eroina era arrivata nelle nostre piazze con una ferocia inaudita, ero una bambina. L’eroina aveva i suoi morti di overdose, o per un taglio sbagliato, qualche conoscente di mio fratello, compagni di liceo. Volevo capire, non capivo mai nulla. In seconda media, convinsi la mia insegnante di Lettere di inserire il tuo diario nelle ultime ore così che potessi leggerti ai compagnetti di classe. Loro mi adoravano, qualcuno si addormentava, la mia amichetta R. diceva che la voce era perfetta, sembri Christiane, diceva. Di te non conoscevamo il volto, nulla, la copertina restituiva l’immagine di Natja Brunckhorst, la protagonista del film che ti hanno dedicato. Quel film l’ho visto, era spaventoso, ma quel grigiore, l’uggia mortale di quella Berlino, gli zombie della kurfustentrasse, i quartieri dormitorio, Gropiusstadt, mi erano entrati in vena, come la roba nelle tue.
La mia amichetta cominciò a farsi a quindici anni, era rimasta nelle case popolari, si spacciava maledettamente, erano miseri, sporchi, forse ne è uscita oggi, credo almeno. Non so, hai contagiato una generazione di eroinomani. Forse. Il mio compagnetto M. era il più indolente, ascoltava la mia voce ma diceva che pensava ad altro, che a lui i libri non piacevano. Poi si è bucato anche lui. L’ho incontrato anni dopo, non mi riconosceva. Eravamo in piazza, lui era lo stesso ragazzino, non era cresciuto nemmeno in altezza, soltanto si bucava e parlava della scimmia, diceva che aveva questo colpo ai reni, tremava, lo raccontava a un altro tizio, un tossico, mentre aspettavano la roba. Ed io ero lì. Parlavamo di roba buona e di roba tagliata male, di quel tale che c’era rimasto o del pusher delle case di via Italia che vendeva l’erba migliore. E i miei anni della giovinezza sono stati anche questo. Una continuità ligia e fedele ai tuoi inferni che ho attraversato per un patto malato, restarti accanto, perché volevo capire, ti dicevo, e non capivo nulla.
A sedici anni pensavo di essermi innamorata, lui si faceva, ma non siamo stati insieme, mai. L’altro, che incontrai un anno dopo, si bucava e aveva tentato il suicidio con l’eroina. Nessuno è morto, sono ancora lì, ma gli altri li ho persi. Non ho vissuto che questo, perché volevo capirti o non so cosa. Oggi ti ho incontrata di nuovo, la tua seconda vita, il libro, le tue foto, finalmente ti vedo. leggo che non ne sei mai uscita. Il tuo diario era un diario maledetto. Mi sento responsabile per R. o per la mia amichetta del cuore A. che a diciotto anni raccolse l’ultimo respiro del suo fidanzatino, morto di overdose ovviamente. E dico ovviamente. Mi sento responsabile, sono stata io a leggerti, ad avvelenarli piano piano. In seconda liceo, la mia amica P. ti volle leggere, chiese in prestito il diario. Quel libricino con la copertina gialla non lo rividi più. E non chiesi alla mia amica P. di riaverlo, me ne ero liberata. Anni fa, ho incontrato la sorella e invece di pensare alla mia amica P. pensai a te, al tuo diario che a P avevo prestato. Chiesi di lei. Appresi dalla sorella che P. era morta, in un incidente. Era un diario maledetto. Mesi fa, mio padre l’ha ricomprato in una bancarella, lo vendevano a due euro, pensa, era un pocket. Sono arrivata a pagina dieci, le budella mi si torcevano. E’ finita, stavolta è davvero finita.