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Kobane, simbolo o battaglia decisiva?

Sembra che a Kobane si decidano le sorti del conflitto in Siria. A giudicare dall’attenzione mediatica, pare che la guerra infuri solo in questa città al confine con la Turchia che da oltre una settimana è assediata dai miliziani dell’Isis. Eppure in Siria la guerra continua. L’aviazione del regime di Damasco sta bombardando da giorni la città di Da’ra, adoperando i famigerati barili bomba che hanno già distrutto mezza Aleppo. A Homs, nel quartiere periferico del Waer, solo ieri sono morte sei persone, fra cui 3 bambini, uccisi da un colpo di artiglieria lealista. Nei dintorni di Hama, ci sono intensi scontri fra brigate ribelli e forze governative. Tutto ciò non è rilevante, in quanto non c’è l’Isis ma la “cara” vecchia guerra fra regime e ribelli siriani.

Invece, Kobane ha assunto un significato simbolico perché vede i curdi del partito Pyd (alleati del Pkk) scontrarsi con l’Isis in una zona di confine con la Turchia che potrebbe coinvolgere quest’ultima nel conflitto. Ma chi sono questi curdi che si scontrano con l’Isis? All’inizio della rivolta siriana, ormai tre anni fa, l’esercito lealista si ritirò dalla regione del Hasaka, lasciandola in mano ai miliziani curdi che repressero il movimento curdo-siriano solidale con la rivoluzione. Uno dei principali leader di questo movimento era Mashaal Tammo, fondatore e presidente del Partito del Futuro Curdo, che fu assassinato nel 2011 e che aveva già trascorso tre anni nelle carceri siriane a causa delle sue posizioni.

La situazione dei curdi in Siria non è mai stata facile, anzi. Centinaia di migliaia di curdi siriani risultavano apolidi, in quanto il regime siriano non gli aveva mai riconosciuto la cittadinanza. Nel marzo del 2004, durante una partita di calcio, scoppiarono dei tumulti fra la tifoseria arabo-siriana e quella curdo-siriana che portarono all’intervento dell’esercito. Seguirono diversi giorni di arresti, repressione e decine di morti (tutti curdi). Vista questa situazione di repressione, parve normale ai curdi, non affiliati al Pyd o al Pkk (entrambi hanno da sempre goduto di una protezione siriana in funzione anti turca), allinearsi con la ribellione, subendo per questo la persecuzione del regime e dello stesso Pyd.

Dal canto suo, la Turchia di Erdogan ha necessità che il Pkk e il Pyd non si rafforzino, grazie a una legittimazione internazionale derivante dalla guerra che questi conducono contro l’Isis, in quanto li potrebbe indurre nel nome dell’indipendenza da Ankara a riaccendere la stagione degli attentati. Non va però dimenticato che Erdogan ha centinaia di migliaia di profughi siriani in casa, che premono perché la Turchia mantenga le sue promesse: la caduta di Assad. L’altro problema, forse più insidioso dei curdi è la presenza di una massiccia comunità alawita (setta a cui appartiene Assad) che potrebbe causare problemi qualora la Turchia decidesse, come ha già peraltro comunicato, d’intervenire contro il regime di Damasco.

Il dato certo è che la guerra dell’Isis sta legittimando molti attori: i curdi del Pyd si sono trasformati in eroi, nonostante la persecuzione portata avanti in Siria contro i curdi e i siriani solidali con la rivoluzione, anche grazie alle brigate di sole donne che agli occhi dell’Occidente richiamano all’emancipazione femminile; il regime di Assad pare sia diventato un partner (indiretto) degli Usa e l’Iran emerge sempre di più come la nuova potenza egemone che – nonostante la brutale repressione che porta avanti contro gli oppositori e il regime integralista che lo governa – tutela la democrazia contro il terrorismo di matrice sunnita. Chi escono delegittimati sono: la rivoluzione siriana, accomunata al fanatismo dell’Isis; l’Islam, in quanto viene costantemente associato al fondamentalismo; i musulmani, indistintamente, colpevoli di non condannare mai abbastanza l’Isis e, ovviamente, il popolo siriano che continua a venir massacrato nel disinteresse generale.