L’odore acre di alcool si è sparso per tutto il teatro fino a saturare l’aria scura di quell’appiccicoso, di quel mieloso di schiuma e bollicine, di tappi saltati e bottiglie tintinnanti, di cin cin caracollanti. Bevono, e tanto, e davvero, non nella finzione scenica, le due danzatrici (che qui stanno sedute) della compagnia ceca Spitfire nell’interessante “Antiwords” all’interno del festival “Intercity” diretto da Dimitri Milopulos, quest’anno dedicato ad un ventaglio di Paesi, ed alle loro drammaturgie, dalla Palestina ad Israele, dall’Algeria al Belgio, dalla Danimarca appunto alla Repubblica Ceca.
“Antiwords”, contro le parole, che in alcuni momenti storici, ed in alcune Nazioni, ieri come oggi, meno si parla, o si scrive, meglio è, nel torpore, nel silenzio, nella negazione di un pensiero critico individuale, nella formulazione di dubbi, domande, proposte alternative. Tratto poeticamente, e sublimato in azioni mute, da “L’udienza” di Havel, praticamente immobili, seduti ad un tavolino, ad un bar cupo e pesante o pub noir, stanno accusatore ed accusato, vittima e carnefice, uno impaziente e con il dito spianato, l’altro intimidito, refrattario, compresso su se stesso. Hanno due grandi maschere in testa, che, se da una parte esteriormente sono identiche, assumono connotati, movenze, sentimenti, espressioni e sfaccettature completamente differenti con il gioco di piccoli movimenti che i corpi delle due ragazze mettono in atto.
Minimi spostamenti di pochi centimetri che fanno diventare un volto anonimo ed immobile ora divertito adesso impaurito, ora giocoso adesso preoccupato. Due testoni che somigliano, ma forse è una proiezione tutta nostrana, a Mussolini (e in maniera diametralmente opposta con un ché di Indro Montanelli) nella classica espressione da monumento di mascella volitiva nella sua calvizia. Bevono, nella prima parte il clima è ironico poi si fa grave, perché in questo Paese non è rimasto altro, bevono non per dimenticare ma per non pensare all’oggi, si sono autoesclusi ed autoemarginati dentro il buco nero dell’alcool (ma potrebbe essere anche la droga in altre situazioni) per non vedere e non constatare lo sfascio attorno, si sono autosilenziati, quando la rivolta sembra non più possibile arriva la rassegnazione e la depressione con conseguente autoannientamento volontario, scientifico, metodico, quotidiano.
Vittima e carnefice hanno lo stesso volto, e quando uno dei due va alla toilette, l’altro ne prende il posto, nella loro intercambiabilità, nel loro essere così uguali, così impauriti dal regime dall’essere uno la spia dell’altro. Si respira la cortina di ferro e l’invasione russa della Primavera di Praga. Non rimane che bere bukowskianamente, senza gioia in maniera compulsiva, e molto (le due esili attrici, ed ancora stranamente dal ventre piatto!, si scolano alla goccia realmente una cassa di birre) in questo disperato stordimento ed abbattimento delle forze e delle difese.
Da una parte un grigio burocrate, sembra uscito dal “Castello” di Kafka, alcolizzato ed ignorante, farfugliatore ed aggressivo, surreale nel suo linguaggio e nelle sue richieste incomprensibili, dall’altra un autore, uno scrittore non sappiamo quanto allineato al regime, che sente minata la propria libertà, la propria azione di manovra, inventiva, l’arte della sua penna, impantanato nei divieti e nelle richieste sottese. Un potere che non ordina né minaccia direttamente ma più sommessamente fa intendere senza dire, fa capire senza arrivare all’espressione lampante e limpida, ché tutto rimanga ammantato e confuso, dai contorni sfocati, dalle regole incerte ed interpretabili di volta in volta all’uso. Che l’esercizio del potere è già di per sé abuso di potere.