Sono un angelo del fango. Anzi, lo sono stato. Quarantaquattro anni fa. Non ne avevo ancora compiuti diciotto, quell’8 ottobre 1970, quando squillò la campana della morte, i rintocchi portati dalle acque del torrente Bisagno, nel cuore di Genova. Era un giovedì. Tornato a casa da scuola –frequentavo il liceo classico al D’Oria, accanto alla questura – subito dopo pranzo, osservando la pioggia battente dalla finestra di camera mia, compresi che non era la solita giornata di maltempo. La telefonata del mio compagno di banco, Roberto, che abitava in corso Montegrappa, sulla collina che domina il Bisagno, alle spalle di Brignole, mi confermò l’emergenza. Mi affacciai al balcone della sala da pranzo, che dava sulla parte opposta, verso mare. Corso Aurelio Saffi è la strada di circonvallazione a mare che dalla Questura corre fino a piazza Caricamento, costeggiando la sopraelevata. Sentii urla e imprecazioni provenire dal basso (abitavo all’ultimo piano di un palazzo che dominava la zona in cui il Bisagno, sotto la copertura stradale, sfocia al mare). All’improvviso scorsi l’onda scura che correva veloce sommergendo viale Brigate Partigiane, lo stradone che corre dalla questura alla Fiera del Mare. Un fiume di acqua marrone si allargò sull’asfalto e sulle aiuole al centro della strada e tracimò verso la case dei pescatori, ai margini, appena sotto il livello stradale. Ricordo gli abitanti dei piani terreni, terrorizzati, che staccavano le persiane in legno e le appoggiavano di fronte agli usci indifesi. Gli alloggi vennero invasi dall’acqua e finalmente compresi che si stava consumando una tragedia. Il giorno avanti, il torrente Leira era uscito dagli argini a Voltri, la delegazione all’estremo ponente, devastando centinaia di abitazioni e provocando vittime fra gli abitanti.
La televisione in bianco e nero, con soli due canali della Rai, cominciò a trasmettere confuse immagini della città ferita. Il piazzale di fronte alla stazione ferroviaria di Brignole era un enorme lago scuro dal quale spuntavano i tetti delle auto. Sui tetti degli autobus, semisommersi anch’essi, si erano rifugiati alcuni passanti che attendevano i soccorsi, fradici sotto la pioggia battente. La città era nel caos, nuovi allarmi provenivano dalle delegazioni dove erano esondati altri torrenti. Partita da ponente, l’alluvione si era allargata a levante. Mio padre aveva telefonato dall’ufficio, in piazza Dante. Alla guida della sua Fiat 1100 era scampato per pochi minuti alla furia dell’acqua. Non potevo restare con le mani in mano. Mi preparai ad uscire, mia madre mi sbarrò l’uscio di casa. “Tu non ti muovi”. Invano protestai, allora gli ordini dei genitori non si discutevano e io ero minorenne. Mi rassegnai a restare in casa, rabbuiato e inquieto, sfogandomi al telefono con il mio amico Roberto e preparando la giornata dell’indomani.
Venerdì mattina la pioggia era cessata e non avevo motivo di indugiare. Indossai un paio di vecchi jeans e una maglietta di lana di colore rosso, col collo chiuso a “lupetto”. In sella alla mia Vespa “Primavera” risalii verso Brignole e rischiando ad ogni metro di scivolare sul tappeto di fango che ricopriva l’asfalto raggiunsi Borgo Incrociati. Proprio l’antico quartiere dove è tornato ad accanirsi il Bisagno. Un “remake” che non può essere casuale. L’acqua inferocita aveva devastato alloggi e negozi, trascinando via persone e cose. Migliaia di confezioni di medicinali tappezzavano la strada di fronte ad una farmacia. Qualcuno mi fornì un paio di stivali e un paio di guanti. Mi misi a scavare nel fango. Centinaia di ragazzi, utilizzando il passaparola telefonico – internet era ancora nel grembo di Giove – si erano dati appuntamento nelle strade cittadine. Scavavano, a mani nude o malamente protette da guanti di gomma da casalinga, ripescavano oggetti, ripuliti con getti d’acqua e riconsegnati ai proprietari che ringraziavano, commossi, quell’improvvisato esercito della salvezza.
Come per l’alluvione di Firenze, quattro anni prima, i giovani furono i primi a rimboccarsi le maniche, ma a Genova non convennero studenti da tutto il mondo. Furono i ragazzi della città, dei Balilla in versione Novecento, a far squillare la diana della riscossa. Allora non esisteva la Protezione Civile e ci si arrangiava alla bell’e meglio. Tutto o quasi avvenne su base volontaria, almeno nei primissimi giorni. In quell’inferno infine spuntarono i soldati del Genio, con gli autocarri attrezzati, le cisterne, le cucine da campo con rifornimenti di cibo e pasti caldi. Come per un tacito accordo, noi ragazzi, ribattezzati dai giornali “gli Angeli del fango”, stampammo l’impronta della mano destra infangata sulle nostre magliette. Fu il segno di riconoscimento che ci rese tutti fratelli. E sorelle. Ragazzi e ragazze, dopotutto il Sessantotto era arrivato anche a Genova. I giovani delle delegazioni operaie del ponente e gli studenti di Albaro e Castelletto, i quartieri alti dove viveva, isolata, la borghesia cittadina. Non più figli di papà e proletari. Tifosi del Genoa e della Sampdoria. Solo “Angeli del fango”. Senza nome.
Per ciascuno di noi era pronta una carezza, un “bravo!”, un sorriso di riconoscenza. La gente ci offriva panini e bibite, i bar rifiutavano il pagamento del cappuccino. Le scuole restarono chiuse (e fu il dono più gradito) i vigili urbani ci invitavano ad imboccare sensi vietati e strade pedonali, dove i ragazzi accorrevano, in sella alle loro motociclette, qualcuno aveva bisogno di loro. Fu un’avventura drammatica e sublime, che ci consegnò – e fu la prima volta – alla dura eloquenza della vita vissuta. Fuori dai banchi e dalle palestre, lontani dai divertimenti quotidiani, assaggiammo tutti quanti, noi “Angeli del fango”, il gusto salato della vita vera. Senza accorgercene, quei giorni consumati nel dolore degli altri, con l’euforia ingenua di sentirci importanti, chiuse la nostra adolescenza e ci proiettò nel mondo dei Grandi. Io trovai l’amore, ma questa è un’altra storia e la tengo per me.