Dopo Thom Yorke, che a fine settembre aveva pubblicato "Tomorrow's Modern Boxes", tocca a Selway: pulsazioni elettroniche e arabeschi ritmici, con brani che omaggiano la concezione sonora che la band si è lasciata alle spalle da diversi dischi
È un periodo particolarmente prolifico per buona parte dei Radiohead, impegnati in collaborazioni e nuovi lavori solistici. L’ultimo in ordine di tempo è “Weatherhouse” del batterista Philip Selway, appena uscito per l’etichetta Bella Union. A fine settembre invece Thom Yorke aveva pubblicato “Tomorrow’s Modern Boxes”, album rilasciato via BitTorrent (acquistabile al costo di sei dollari), nuovo esperimento di distribuzione dopo la rivoluzione avvenuta con “In Rainbows”, che lasciava agli ascoltatori la decisione di quanto e se pagare il disco. Dall’altra parte, il componente con la naturale inclinazione verso la musica classica – Johnny Greenwood – firma la colonna sonora dell’ultimo film di Paul Thomas Anderson, “Inherent Vice”. Oltre ai dischi solistici della band inglese, in questi giorni si aggiunge l’uscita di “Radio Rewrite” (2012) di Steve Reich, nel quale il compositore rivisita con la consueta genialità “Everything in Its Right Place” e “Jigsaw Falling Into Place”.
L’ombra di un nuovo album dei Radiohead aleggia inesorabilmente in ogni lavoro di Philip Selway: il suo primo disco “Familial” anticipò di pochi mesi il nuovo dei Radiohead (“The King of Limbs”) e questo suo ultimo album, Weatherhouse”, esce insieme alla notizia di un imminente ritorno in studio da parte della band. Discreto e a tratti defilato – proprio come il suo ruolo all’interno del gruppo che lo vede in una posizione decentrata ma fondamentale – Philip Selway ha contribuito in modo imprescindibile a plasmare le mutazioni sonore dei Radiohead.
Se il suo primo lavoro solistico, “Familial”, lo vedeva in veste di songwriter alle prese con ambientazioni acustiche, in “Weatherhouse” il batterista riprende possesso del suo strumento e di tutti i concetti che sono stati alla base dell’approccio compositivo della band di Oxford. Il disco è stato registrato negli studi del gruppo situati nell’Oxfordshire, e l’iniziale “Coming up for Air” è la bussola che ci indica la direzione: pulsazioni elettroniche e pattern sonori che preparano il terreno ad un’apertura melodica e successiva modulazione delineata dalla chitarra elettrica. La costruzione ritmica – che si avvale di quasi tutti gli strumenti possibili, drum machines comprese – è fondamentale e trova la sua massima espressione in “Around Again”, vero e proprio arabesco ritmico. “Ghosts” è un gioiello di brano che avrebbe potuto figurare in un nuovo lavoro dei Radiohead, ad omaggiare una concezione sonora che la band si è lasciata alle spalle da diversi album a questa parte.
I testi semplici pur nel loro accennare e talvolta lasciare volontariamente in sospeso un’emozione, vengono avvolti da strutturate architetture sonore (”Waiting for a Sign”, “Drawn to the Light”) sulle quali si spiega la morbida voce di Selway. La chiusura dell’album spetta alla canzone più suggestiva dell’intero lavoro, “Turning it Inside Out”, dove l’iniziale legato degli archi – che rimandano al minimalismo di Reich – apre ad una tensione che si allenta solo con l’entrata in scena della chitarra e del cantato, fino a sciogliersi nell’ultima parte del ritornello, in quell’inesorabile “it won’t turn anymore”.
Proprio come in altri episodi del disco, anche in “Turning Inside Out” ci sono cambi di “scena sonora” e ad una prima parte essenziale, ne segue una seconda dove emergono gli altri strumenti – soprattutto le percussioni – in un gioco di ostinati che incapsulano alla perfezione l’essenza del testo: “And when we talk/ I wonder who’ll break first/ We’ll take it all apart/ And twist eachother’s words/ Look at us now/ Turning it inside out And/ it won’t turn anymore”.