Il dolore è ancor più dolore se tace, scriveva oltre un secolo fa Giovanni Pascoli. Eppure, nonostante dal 2010 una legge italiana autorizzi l’uso di farmaci per il trattamento del dolore e obblighi gli operatori sanitari ad alleviarlo in tutte le sue forme, una parte consistente di malati rifiuta le cure. O tace la sofferenza. Per pudore, perché il dolore rivela la propria fragilità e rende vulnerabili. Ma anche per via di un diffuso pregiudizio nei confronti degli oppioidi. O perché nella nostra cultura il dolore è considerato un aspetto ineludibile della vita. Qualcosa, in definitiva, da sopportare senza tanti piagnistei.

È quanto emerge da un’indagine condotta dall’istituto di ricerche Doxapharma in collaborazione con la Società Italiana di Cure Palliative (Sicp). La ricerca è stata presentata nell’ambito di un convegno nazionale di quattro giorni conclusosi ad Arezzo, cui hanno partecipato oltre 1000 specialisti di tutta Italia. Il campione Doxapharma riguarda la quasi totalità degli hospice sul nostro territorio: tramite un questionario, sono stati interpellati circa 300 tra medici palliativisti e infermieri da Nord a Sud.

Tema dell’indagine era il breakthrough cancer pain, in italiano dolore episodico intenso: un fenomeno, spesso improvviso e imprevedibile, che colpisce soprattutto malati oncologici in fase terminale. Una patologia pressoché sconosciuta ai non addetti ai lavori – e stando alla ricerca sottostimata dal 70% dei palliativisti e dal 79% degli infermieri -, ma che ha effetti devastanti sui malati. Qualcosa di “atroce” e “lacerante”, secondo le testimonianze raccolte dai ricercatori; “una coltellata improvvisa” che “impedisce di ragionare e rimanere lucidi”. Come mai, allora, il 46 per cento dei malati sceglie di conviverci? Piero Morino, direttore del coordinamento cure palliative dell’Azienda Sanitaria di Firenze e membro del direttivo Sicp, parla di “sindrome dell’eroe”. “Il paziente pensa che l’efficacia delle cure dipenda da quanto lui è bravo o sopporta il dolore. Perciò minimizza o tace”.

Inoltre in Italia permane una forte resistenza nei confronti degli oppioidi. “La morfina viene associata a un farmaco-pre morte”, aggiunge Morino. “Invece, se usata in modo appropriato, è un analgesico efficace e con pochi effetti collaterali”. Tant’è: il consumo di morfina è considerato dall’Oms l’indice di civiltà di un Paese, poiché costituisce un buon indicatore degli interventi messi in atto per la riduzione e il controllo del dolore. Ma nonostante l’Italia sia inserita dall’Oms tra i Paesi che hanno un sistema avanzato di cure palliative, nell’impiego di oppioidi risulta ancora ultima in Europa.

“Il problema è che il sintomo dolore non può essere gestito soltanto con i farmaci”, spiega il direttore della Fondazione Roma Sanità Italo Penco, anch’egli nel direttivo nazionale Sicp. “Compito del palliativista è prendere in carico il malato nella sua totalità: dal punto di vista clinico, psicologico, umano. Solo cercando di capire perché un malato ha dolore e quali sono le sue paure più profonde, lo si può aiutare a combatterle e migliorare la sua qualità di vita”.

Nei quattro giorni di convegno Sicp sono stati presentati anche molti esempi di terapie alternative, dai laboratori teatrali di medicina narrativa, alla vela-terapia, all’utilizzo del “cibo del buon ricordo”: sapori dimenticati o legati alle proprie origini, da recuperare per tornare a provare emozioni positive. Perché se la morte e il dolore restano i due grandi tabù del mondo contemporaneo, forse è arrivato il momento di provare a infrangerli.

di Anita Gatti 

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