Per l’Unione europea, questa è una ‘stagione di mezzo’: la Commissione Barroso fa i suoi addii, cercando di lasciare buoni ricordi; e la Commissione Juncker deve ancora entrare in funzione, ma già agita il bastone e la carota. Nel vuoto di potere del passaggio delle consegne a Bruxelles, Renzi tira fuori riforme come fossero ciliegie e la Merkel non ha paura di vedersi crescere un naso da Pinocchio, dicendosi sicura che l’Italia e la Francia rispetteranno gli impegni europei.

Il tutto in un clima di reciproci salamelecchi. Per cui i leader dell’Ue salutano positivamente il ‘Jobs Act’, pur senza conoscerne il contenuto e la portata, e Barroso si dice sicuro che l’Italia d’ora in poi spenderà bene i fondi europei, che ha sempre usato poco e male.

Aspettando Godot, che nell’Ue sono i 300 miliardi di euro di investimenti del piano Juncker, l’Italia si prepara a vivere il consueto ‘tira e molla’ con la Commissione europea sul Def. Alle avvisaglie d’atteggiamenti negativi da parte delle autorità comunitarie, il ministro Pier Carlo Padoan replica con sicurezza: l’Ue non boccerà l’Italia, perché “abbiamo i numeri giusti e siamo tra i pochi che stanno sotto la soglia del deficit del 3%”.

Tra promesse ostentate, preoccupazioni smorzate e tentazioni di compiacimento (per il ‘Jobs Act’), i prossimi giorni saranno cruciali: la Legge di Stabilità, appunto il Def, va recapitata a Bruxelles entro il 15 ottobre. Di mezzo, ci sono, lunedì e martedì, le riunioni di routine dell’Eurogruppo e dell’Ecofin. In attesa di conoscere i dettagli sulla manovra, si pensa che il governo intenda spingere il deficit 2015 al limite del 3%, allontanando il pareggio di bilancio fino al 2017. L’impostazione potrebbe dispiacere agli alfieri del rigore della Commissione Juncker.

Che, a parte il ‘piano dei 300’, non sarà certo tutta ‘rose e fiori’, sul crinale tra stabilità e flessibilità. Basta vedere come il falco designato, il finlandese Katainen, s’è presentato al Parlamento europeo: dare slancio agli investimenti, ma senza aumentare il debito; e non lasciare che “i problemi di 2 o 3 Paesi” condizionino l’Eurozona –qualcuno si sente fischiare le orecchie?-

Da Washington, dove partecipa alle riunioni annuali del Fondo monetario internazionale, Padoan azzera lo voci di bocciatura della Legge di Stabilità, che il premier Renzi e il presidente della Bce Draghi hanno buon gioco a definire “come minimo premature”. “Non c’è alcun negoziato in corso sul Def – dichiara Padoan alla Cnn- e non vedo alcuna possibilità che venga respinto”.

Le agenzie di rating mollano randellate a destra e a manca, ma, per il momento, risparmiano l’Italia. Che è invece tartassata dalle previsioni economiche dell’Fmi: Pil in calo dello 0,2% quest’anno, unico grande Paese in recessione. L’Italia resta vulnerabile: non sforerà sul deficit, ma non realizzerà il pareggio strutturale.

Padoan parla di una crescita dello 0,5% nel 2015, segnala il persistere dell’incertezza tra deflazione e inflazione, descrive una ripresa in Europa “anemica e disomogenea”, situa allo 0,8% la crescita dell’Eurozona nel 2014. Il dato della produzione industriale, che risale ad agosto, non crea illusioni: resta negativo su base trimestrale ed annua.

Il Fondo ne ha per tutti: taglia le stime di crescita mondiali, avverte che la ripresa è “debole” e “diseguale”. Come fa la Bce a livello europeo: la crescita nell’Eurozona perde slancio, il calo di fiducia maggiore si avverte in Italia – e, senza crescita né fiducia non si creano posti di lavoro -.

Se la Banca resta pronta a ulteriori “misure non convenzionali”, i governi devono fare la loro parte e accelerare sulle riforme: quelli che non lo faranno “saranno cacciati” – dai loro cittadini, è magari sottinteso, ma va chiarito -. Con linguaggio insolito, la Bce afferma che, senza riforme, l’Italia non ha un “futuro radioso”.

E l’Italia sembra prestare ascolto: il premier Renzi legge in positivo gli incoraggiamenti, scontati e persino banali, venuti dalla Conferenza sul Lavoro svoltasi a Milano mercoledì, in contemporanea al dibattito al Senato sul ‘Jobs Act’. I leader dell’Ue presenti, che della riforma del lavoro sanno solo quel che lui racconta loro , lo spronano ad andare avanti. La cancelliera Merkel, in versione buonista, giudica il ‘Jobs Act’ un passo contro la disoccupazione. Draghi dà il suo avallo, specificando che l’importante non è licenziare, ma assumere. Barroso s’aspetta “un grande impatto”. L’Ocse si congratula. Il presidente della Repubblica Napolitano parla di “passo avanti”, ma aggiunge che “molto resta da fare”. Padoan si mette in scia: “Il ‘Jobs Act’ è solo un pezzo d’un piano di riforme ambizioso. Il lavoro è la priorità, i posti arriveranno”

Galvanizzato, Renzi sposta subito l’attenzione su un’altra riforma, quella fiscale, incurante del fatto che nessuna di quelle finora impostate –legge elettorale, Senato, Province, P.A., lavoro- è stata portata a compimento: “Se faremo le scelte giuste –dice-, tra vent’anni saremo un Paese leader”. Ma come? I mille giorni sono già diventati un Ventennio?

 

 

 

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