Torno a Genova, come ogni settimana. Mentre il treno entra a Brignole, l’epicentro della seconda alluvione in tre anni, mi viene in mente un altro ritorno, in macchina, l’indomani del G8, e i bambini che, credendo alla televisione, si chiedevano come mai la città fosse ancora in piedi.

Ora hanno vent’anni e sono corsi anche loro ad arruolarsi fra gli Angeli del fango: il sito del Secolo pubblica una scelta di selfie, e vabbé. Alla stazione sono sempre aperti i cantieri per trasformare un elegante palazzo liberty in un trucido centro commerciale; anche gli autobus sono ancora fermi, per non parlare dei ritardi nei soccorsi, ma neppure questa è una novità. Il tassista che mi riporta a casa si esprime in italiano, a differenza di quelli di Roma: per un attimo, sono orgoglioso di lui, dei miei figli e di Genova in generale.

Certo, poi c’è chi, dalle parti del Fereggiano, ha accolto a bottigliate i soccorritori: ma lì, l’ultima volta, c’erano stati sei morti, e da allora non è cambiato niente.  Su tv e internet ricomincia il rito del capro espiatorio, ma anche lì bisogna intendersi: non si possono volere, insieme, la rapidità e la legalità delle opere pubbliche.
Se si vuole che i lavori urgenti si facciano, allora si trasformino i controlli da preventivi a successivi: altrimenti continueremo a fare automaticamente ricorso contro qualsiasi provvedimento della P. A. Anche i metereologi sono accusati di aver creduto ai modelli matematici e non ai loro occhi. Ma, pure qui, la metereologia è come l’economia, non è una scienza esatta: quando Reagan doveva prendere decisioni importanti si rivolgeva agli astrologi.

A occhio, adesso dovremo ridimensionare ulteriormente le nostre attese & pretese: noi genovesi, noi italiani, persino noi umani. Noi genovesi dovremo renderci conto che siamo una vecchia città europea esposta a tempeste tropicali: altro che waterfront e nuovo stadio, prima pensiamo alla sicurezza.

Noi italiani dobbiamo smetterla con lo scaricabarile – le colpe sono sempre degli altri, dell’Europa, degli immigrati, dei gufi – e chiederci cosa sta facendo, ognuno di noi, per contribuire alla vivibilità della propria città oltre a pagare le tasse, apparentemente a fondo perduto. E anche noi umani, se posso allargarmi, dovremmo ritrovare la religione civile dei nostri antenati, che quando si insediavano sui territori cercavano prima di ingraziarsi tutti gli dèi del luogo, terrestri, marini e celesti. Oggi si chiama ecologia, ma neppure lei è una scienza esatta.

 

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