E’ appena uscito nelle sale cinematografiche in 50 copie “Il regno d’inverno” di Nuri Bilge Ceylan, Palma d’Oro a Cannes 2014, distribuito dalla Parthenos. Tre ore e dieci per un film fitto di dialoghi e immerso nelle nevi e tra le rocce della Cappadocia. Tre ore e dieci di cinema tutte da gustare, da seguire inquadratura per inquadratura e conoscere; proprio perché spesso le cinematografie non angloamericane-italiane-
Insomma, cinema eroico, cinema come avventura che detta un tempo non omologato dell’ora e trenta o dei 45 minuti dell’episodio di una serie tv.
A breve, anche se ancora una data certa non c’è, Lucky Red porterà in sala “Un piccione seduto su un ramo medita sull’esistenza” dello svedese Roy Andersson, Leone d’Oro a Venezia 2014: una trentina di piani sequenza, poco più poco meno, per un altro cinema visivamente ‘estremo’ e culturalmente inusuale. Apriti cielo, anzi storciti naso. E’ nato il filone critico, o forse sono almeno due, che interpretano il gusto del pubblico. Insomma, il loro filtro analitico è “questo è quello che vorrebbe il pubblico”.
Così se a Cannes la critica che interpreta il gusto del pubblico mette il becco il giusto (troppo lontane le sale, ci si arriva in pochi, si è spesso stanchi e i pisolini sono all’ordine del giorno) Ceylan per ora si salva: anche se i 196 minuti stampati nel flyer di presentazione hanno fatto fuggire tre quarti di sala a circa un’ora e quaranta nell’anteprima del film in una grande città del Nord Italia. Andersson, poveretto, è invece già stato impallinato ancor prima di uscire in sala degli esegeti del gusto popolare: che scatole, che triste, che malinconia, vado al cinema per divertirmi, perché vince il Leone d’Oro sta palla e non Al Pacino che era lì e andava premiato, ecc…
Se Ceylan in sala andrà ahinoi malino, Andersson fin da ora andrà malissimo. Insomma, nel nostro paese, la curiosità, il tentativo di apprendere il diverso da sé o la complessità di un linguaggio o di un messaggio sconosciuti, è attività mentale complicatissima. Non bastava la divertente protesta pop che negli anni belli (i ’70) della saga di Fantozzi finiva ne “La Corazzata Potemkin è una cagata pazzesca”: ora la critica, forse per sgraffignare qualche contatto o copia in più, farsi affollare corsi universitari in crisi di iscritti, pare viaggiare sui binari del “so io che vuole pubblico”.
Per l’Italia cinematografara, o quel poco che ne resta, si aggira il fantasma del “premio del pubblico”, delle “giurie popolari“, a cui la critica premonitrice e scaltra, ha già assegnato il nuovo parametro dell’infallibilità di giudizio. Prima di arrivare a questa disfatta non culturale ma politica facciamo alcuni tentativi: ruotiamo e sostituiamo di più gli “intellettualoni” rei di premiare i film pallosi (a Venezia c’era Carlo Verdone in giuria, per dire…), facciamoli aggiornare con qualche visione di Zalone-Nunziante (che poi per alcuni sono depositari delle teorizzazioni di Deleuze), ma davvero l’esegesi intellettuale della “casalinga di Treviso”, del “bracciante lucano” e del “pastore abruzzese” lasciamola stare: lasciamo queste persone al loro lavoro, al loro gusto personale, alla loro soggettività, ai loro tempi digestivi che li portano al pisolino o alla compulsiva comunicazione secondo per secondo sul web.
Lasciamo che chi conosce il cinema, chi ha la vivacità intellettuale di comprendere e presentare nuove idee, stimoli, linguaggi, sia in grado di aprire ad altre culture, ad altre parole, ad immagini altre, continuando a scegliere, premiare, mostrarci anche “Il regno d’inverno” e “Un piccione seduto…“. Altrimenti ci verrà a mancare l’aria, la libertà di scelta e in fondo, paradossalmente, proprio quella libertà di giudizio di cui qualcuno vuole essere popolarmente interprete. Dimenticavo: grazie Parthenos e Lucky Red.