Ospito il contributo di un caro amico, Cecco Bellosi, responsabile del gruppo nazionale carcere del Cnca. Cecco conosce a fondo il sistema penale nel nostro Paese e sul tema delle garanzie e dei diritti dei detenuti è una voce autorevole, anche perché ha trascorso una decina d’anni nelle galere della Penisola. Quella che segue è la seconda parte di tre. L’ultima parte, che uscirà a distanza ravvicinata, approfondirà l’attuale situazione delle carceri e tratteggiano i possibili orizzonti futuri.
Come dicevo a chiusura della seconda parte dell’articolo, c’è il rischio che la riforma carceraria s’imponga per la paura delle sanzioni europee. Facciamo in modo che essa trasformi la necessità in virtù.
E allora se, come si è visto, a essere incarcerata è soprattutto la povertà, questo significa che l’emarginazione deve essere trasformata in inclusione sociale, a evitare le recidive ma anche a garantire livelli dignitosi di giustizia sociale.
La sicurezza non può essere separata da percorsi di coesione sociale.
Vecchie e nuove misure alternative devono essere accompagnate da forme di welfare partecipato.
La legge n. 67 del 28 aprile 2014 introduce la misura della messa alla prova, mutuata dal diritto penale minorile, che prevede, in sede processuale, la sospensione della detenzione in carcere per le pene che, come limite più alto, arrivano fino a quattro anni. La messa alla prova si può svolgere concretamente attraverso l’affidamento sociale o i lavori di pubblica utilità: se nel periodo di esecuzione della misura il condannato non commette reati di origine dolosa, alla fine del percorso la pena sarà considerata estinta.
Questa misura, peraltro già applicata in diversi Paesi, dovrebbe ampliare ulteriormente la possibilità di accedere alle misure alternative senza transitare dal carcere: se il condannato non svolge il programma previsto o se, soprattutto, commette un nuovo reato, torna alla casella iniziale, ripartendo dal carcere. Si tratta, in buona sostanza, di un disincentivo alle recidive e di un incentivo all’autocontrollo.
I condannati che si trovano in affidamento in prova o ai lavori di pubblica utilità devono svolgere i compiti loro assegnati, che possono essere realizzati in termini di studio, di formazione, di attività riparative, utili e risarcitorie nei confronti della società. Questa nuova situazione di partecipazione attiva e non solo passiva alla pena, apre delle prospettive dense di significato verso la valorizzazione delle persone e dei beni pubblici. Un solo esempio: se dei condannati s’impegnano nella ristrutturazione di alloggi in stato di degrado, possono contribuire al recupero del patrimonio pubblico, attingendo a opportunità abitative anche per alcuni di loro.
In una dimensione di welfare partecipato e non di welfare di attesa passiva.
Ovviamente, per arrivare a questo occorrono dei passaggi in termini di formazione mirata e la possibile apertura a passaggi lavorativi non solo nei termini di lavoro dipendente. Le risorse, che in ogni caso servono a ridurre e non ad ampliare la spesa pubblica, possono essere attinte dalla “cassa ammende” e da altri fondi ministeriali dedicati, ma anche dalle politiche economiche delle Regioni. Auspico che un altro segnale possa arrivare dalle realtà del Terzo settore che sono chiamate a collaborare.
Occorre rovesciare la tendenza a incrementare il numero dei detenuti, favorendo percorsi di qualità verso l’uscita, in modo da ridurre in maniera significativa le recidive. Ogni giorno lo Stato spende per ogni detenuto tra i 130 e i 140 euro, a seconda delle stime.
L’obiettivo prioritario è contribuire alla diminuzione del sovraffollamento carcerario attraverso la costruzione di percorsi condivisi di adesione a programmi mirati al superamento attivo delle forme di dipendenza o di consumo problematico e al reinserimento sociale come autonomia reale delle persone.
La permanenza in carcere, spesso, è pura e semplice passività. E la passività, insieme alla noia, è la migliore alleata della dipendenza e delle recidive. Bisogna costruire le condizioni, all’interno di una dimensione di sistema, per la motivazione e la preparazione a evitare la stessa entrata in carcere, ove non necessaria, e, soprattutto, a uscire dal carcere in maniera propositiva e accompagnata dal prendersi cura della persona, non solo dei suoi problemi.
Nel modello di comunità solidale, i servizi pubblici non delegano la gestione di una parte delle proprie competenze al privato, ma piuttosto ricercano partner per la costruzione/rimodulazione delle determinanti sociali dei concreti contesti di vita; allo stesso tempo, il ruolo del privato sociale non consiste nella produzione di un rigido set di prestazioni, ma nella realizzazione di occasioni di apprendimento-espressività, formazione-lavoro, socialità, casa-habitat sociale, ossia di intervento sui principali fattori della salute e al tempo stesso di promozione delle opportunità, delle responsabilità e dei diritti delle persone nel passaggio dal carcere alla società esterna.