In "Io, killer mancato", l'inviato di Repubblica racconta la sua storia. Dal giorno in cui, 17enne, si trovò con una pistola in mano puntata contro l'assassino di suo padre all'ingresso all'Ansa come fattorino. Sullo sfondo, la Palermo della povertà e delle stragi di Cosa nostra
Era pronto, revolver in pugno, bavero della giacca alzato e nel mirino l’obiettivo, l’incubo di una vita: l’assassino di suo padre. Poi gli occhi di Francesco Viviano incrociarono quelli di un bambino, portato in braccio da quell’uomo che lo aveva reso orfano da neonato: un momento di esitazione, e la vita dell’allora diciassettenne palermitano imboccò uno di quei bivi che ne modellano per sempre l’esistenza. “Lì credo sia cambiato tutto: potevo essere un killer, magari essere affiliato da Cosa Nostra, e invece divenni giornalista” racconta lui, poi arrivato all’Ansa di Palermo e oggi inviato di Repubblica. “Di mio padre non ho ricordi, sono cresciuto all’Albergheria, a Ballarò, a casa dei miei nonni, e poi al Villaggio Ruffini a casa della sorella di mia madre, che per mantenermi ha fatto la donna delle pulizie per tutta la vita” spiega Viviano, che in “Io, killer mancato” (Chiarelettere) riavvolge il nastro della sua storia personale.
L’infanzia nei bassifondi di una Palermo poverissima, l’adolescenza divisa con i “compagni di merende” (come li chiama lui) dai cognomi che qualche anno dopo finiranno iscritti nella storia criminale della città: Micalizzi, Gambino, Bonanno, Davì. E poi le sottili sliding doors che avrebbero potuto renderlo assassino, rapinatore, forse affiliato a Cosa Nostra. “Nonostante mio padre fosse un ladro, non c’era nel mio dna la naturale predisposizione al furto, e nemmeno all’assassinio. Per questo non so se la mia vita poteva essere migliore se mio padre fosse rimasto in vita. Magari sarei rimasto in quel mondo che vive di furti ed espedienti. Mia madre al contrario mi ha cresciuto lavorando notte e giorno per una vita intera: il mondo addosso, però, mi crollò quando ho dovuto abbandonare la scuola, lasciare il sogno di diventare comandante di una nave, per cercarmi un lavoro”. La miseria nera e lavoretti mal pagati da una parte, gli amici che già collezionano i primi redditizi colpi dall’altra. “Avevo una tale rabbia dentro che sarebbe bastato poco per cedere e diventare rapinatore di gioiellerie e invece…”.
E invece Viviano inizia a collezionare una serie di lavoretti umili ma onesti: muratore, pellicciaio, marmista. Poi arriva la grande occasione: “Lavoravo in un negozio in centro a Palermo, e ironia della sorte stavo pulendo le vetrine utilizzando dei giornali, quando ecco che arriva mia madre con le lacrime agli occhi per dirmi che volevano assumermi: in quel periodo faceva le pulizie nella redazione dell’Ansa”. Ed è proprio dalla principale agenzia di stampa italiana che inizia la scalata sociale e professionale di Viviano: fattorino, telescriventista, praticante, e poi finalmente giornalista. “A 23 anni poi mi sposo e per la prima volta ho avuto una casa mia, un posto mio dove stare: mai successo”. Fare il cronista nella Palermo anni ’80 non è esattamente un lavoro semplice: in onda va la mattanza di Totò Riina che azzera le cosche palermitane a colpi di kalashnikov, e in contemporanea ci sono gli assassini a ritmo continuo di poliziotti, carabinieri, magistrati e politici che non si piegavano ai voleri della piovra.
È in quel decennio che Palermo conosce il tritolo, che diventa come Beirut, forse peggio. Ed è in mezzo a quelle macerie che Viviano diventa un cronista, non dimenticandosi mai di alcune cose imparate crescendo tra le altre macerie, quelle della Palermo in miseria del dopo guerra. “Non c’è dubbio che crescere per strada mi abbia aiutato in questo mestiere: io conoscevo la psicologia dei boss mafiosi, capivo cosa pensassero quando dicevano qualcosa in un determinato modo. È stato un vantaggio, anche se le minacce o i momenti di paura non sono mancati”. Da quella naturale predisposizione a interagire coi boss di Cosa Nostra, Viviano trarrà vantaggio qualche anno dopo, quando – ormai approdato a Repubblica – andrà in Sudafrica per intervistare Vito Roberto Palazzolo, alias Robert Von Palace, il cassiere di Cosa Nostra per vent’anni latitante nel Paese africano e oggi detenuto in Italia, dove sta scontando nove anni di carcere. “Con me c’era il grande fotografo Mario Vallinotto: ricordo che gli davo calci sotto il tavolo quando faceva commenti inopportuni e capivo che Palazzolo non gradisse”.
Ciò che ha imparato crescendo per strada, però, a Viviano è poi tornato utile anche nel rapporto con le fonti: un rapporto che gli ha garantito di mettere a segno scoop ed esclusive. “Con le fonti ho sempre un rapporto di rispetto: quando fanno una replica smentendo al stessa notizia che mi hanno dato il giorno prima, oppure quando mi danno una notizia che si dimostra falsa, ovviamente in privato mi arrabbio, ma non li sputtano mai pubblicamente. C’è una sorta di onore e di rispetto reciproco che probabilmente solo noi siciliani possiamo capire”.