L'attivista del gruppo Left 21 e docente universitaria: "Il governo non vuole intavolare un dialogo con i manifestanti perché si è accorto che si stanno indebolendo. I problemi maggiori? Educazione, assistenza sanitaria, costi elevati delle case e dei generi alimentari"
A Hong Kong, mentre il Chief Executive, Chun-ying Leung, dice che difficilmente le richieste degli studenti potranno essere accettate e si difende dalle accuse di corruzione circolate nei giorni scorsi, la protesta di Occupy entra nella sua terza settimana, con studenti e non solo a presidiare i tre blocchi di Admiralty, Mong Kong e Causeway Bay. Il movimento si trova però di fronte a un difficile passaggio, stretto tra le difficoltà di continuare la mobilitazione di massa, la mancanza di una rappresentanza autorevole e le voci che circolano secondo cui una repressione “soft” potrebbe avvenire entro il 15 ottobre, mercoledì. Intanto, i gruppi anti-Occupy alzano sempre più la voce. Sono una palude indistinta (così come indistinto è il movimento): gente comune stufa dei “fastidi” provocati dai blocchi stradali, associazioni professionali che sostengono di subire perdite economiche, gruppi politici filogovernativi. Sophia Chan, attivista del gruppo Left 21 e docente universitaria, parla di come Hong Kong possa uscire da questa fase di stallo.
Il governo ha disdetto i colloqui con gli studenti. Perché?
Penso sia convinto che le proteste stiano calando di intensità. Nel frattempo, emergono gruppi che lo sostengono. Insomma, l’esecutivo percepisce che l’opinione pubblica è molto più divisa di una settimana fa, quando dominava l’indignazione per l’uso dei lacrimogeni da parte della polizia. Ritiene quindi di potersi sottrarre ai colloqui e, forse, di poter fare piazza pulita delle occupazioni nei prossimi giorni. La situazione è fluida e tutto può succedere. Nel movimento ci sono tra l’altro divisioni, perché molti non si identificano nella leadership degli studenti. Così, il governo si sente molto più sicuro e potrebbe tentare un’azione di forza nella notte di lunedì o martedì. Ci sono categorie che gli chiedono di rimuovere i blocchi entro il 15 ottobre. Per esempio i camionisti.
Attualmente, quali sono i principali gruppi politici e le componenti sociali all’interno di Occupy?
Ci sono tre gruppi principali: La Federazione degli Studenti, espressione degli universitari; Scholarism, composto soprattutto dagli studenti medi; infine Occupy Central, iniziato da due professori e un leader religioso un anno e mezzo fa come risposta alla riforma elettorale voluta dal governo. A sostegno, c’è l’Alliance in Support of the Students Movement for Democracy, formata soprattutto da organizzazioni di base come Left 21, di cui faccio parte, la Confederation of Trade Unions, gruppi femminili, associazioni cristiane progressiste e così via. Poi ci sono altri gruppi più politici che vanno nelle zone occupate a tenere discorsi . Sono formazioni del ceto medio, come il Partito democratico, quello socialdemocratico, People’s Power e Civic Passion. Gli ultimi due sono di destra. È quindi rappresentato tutto lo spettro politico. La composizione sociale corrisponde alle tre principali zone occupate. Mong Kok è in un’area popolare, quindi in quel concentramento ci sono soprattutto lavoratori e giovani non molto scolarizzati; ad Admiralty predominano ceto medio e impiegati; a Causeway Bay la composizione è mista.
Sembra però che gli studenti abbiano preso la leadership. È possibile leggere le loro richieste, al di là dell’ideale democratico, in termini più sociali?
Sì. Il punto è che un’eventuale elezione diretta a suffragio universale del Chief Executive impedirebbe ai grandi interessi economici di controllare la politica, come è invece successo finora. Per esempio, i grandi tycoon del settore immobiliare hanno da sempre spadroneggiato a Hong Kong, monopolizzando anche altri settori come le telecomunicazioni, proprio in virtù di questo sistema politico che permette loro di controllare sia la commissione elettorale di 1200 membri che nomina il Chief Executive, sia il LegCo, cioè il parlamento.
Quali sono i maggiori problemi sociali di Hong Kong?
Senz’altro l’altissimo prezzo degli immobili. Molti di noi possono anche lavorare finché vogliono, ma non riusciranno mai permettersi un appartamento, il che significa un matrimonio e una famiglia. Molta gente vive in affitto nelle cosiddette “cage homes”. Il governo costruisce nuovi alloggi nei New Territories, ma siccome sta con i grandi interessi economici, edifica pochissime case a prezzi accessibili e regala il resto a grandi compagnie che fanno appartamenti di lusso. Un altro problema è il sistema sanitario. Ci sono tanti cinesi continentali che vengono qui per avere migliori servizi, donne che vengono apposta per partorire, così i figli avranno la cittadinanza di Hong Kong, cioè accesso a una migliore educazione e così via. Il che è percepito come una minaccia ai propri, di benefici. Poi c’è l’educazione che viene sempre più privatizzata e d’altra parte è sempre meno riconosciuta come valore aggiunto dai datori di lavoro. Così i giovani spendono tanto per istruirsi ma non hanno garanzie di una buona occupazione in futuro. Infine, c’è l’aumento dei prezzi alimentari senza che i salari tengano il passo. Quindi la gente fa i miracoli per arrivare alla fine del mese. Questo, oltre a preoccupazione, genera rabbia.
di Gabriele Battaglia