Il copione si ripete da anni. A ogni annuncio di modifica delle leggi sul mercato del lavoro, Cisl e Uil sono pronti ad ascoltare le proposte del governo di turno. Salvo poi criticarle una volta che, trasformate in leggi, ne vedono gli effetti reali. La Cgil invece parte, si può dire, avvantaggiata: oppone sempre (o quasi) “no” incondizionati alle riforme. Oggi sembra di leggere la stessa trama con il dibattito sull’articolo 18 e la riforma contenuta nel Jobs Act. Annamaria Furlan e Luigi Angeletti si sono detti disponibili a scoprire le carte di Renzi. Mentre Susanna Camusso ha sbattuto la porta in faccia al premier.
Per leggere l’inizio della storia si torna indietro. E’ il 1997, il primo governo di centrosinistra guidato da Romano Prodi si è insediato l’anno precedente. Tiziano Treu è al ministero del Lavoro. Il suo pacchetto che prevede nuove norme è arenato alla Camera. Serve una svolta. E lo stesso ministro propone di porre la fiducia sul disegno di legge. Il fronte sindacale si spacca. I leader di Cisl e Uil dell’epoca, Sergio D’Antoni e Pietro Larizza, incitano il ministro ad andare avanti: “Basta che il provvedimento venga approvato al più presto”. Più cauto Sergio Cofferati che comunque non sale sulle barricate: “Il ddl va varato rapidamente, ma non c’è bisogno della fiducia”. La legge entra in vigore il 24 giugno successivo e prevede, tra l’altro, l’introduzione del tirocinio e del lavoro interinale, fino ad allora vietato da una legge del ’60. Passano a malapena tre anni e il segretario confederale della Cisl Raffaele Bonanni – che poi farà carriera – lancia l’allarme: “Il boom del lavoro interinale e del lavoro atipico in generale rischiano di far saltare i criteri di selezione della manodopera che finora hanno governato il mercato del lavoro in Italia”. Il dirigente della Cisl si dice “preoccupato per le distorsioni che si stanno creando nel mondo del lavoro con l’esplosione, in particolare nelle regioni del centro-nord, dei contratti a tempo determinato”. Siamo sempre nel 2000, ma questa volta l’avvertimento parte dal leader della Uil Luigi Angeletti: “Occorre un sistema di regole che impedisca non la flessibilità, ma l’uso del lavoro interinale per distruggere il lavoro buono”.
Salto in avanti: 2003, Silvio Berlusconi è presidente del Consiglio per la seconda volta. Al ministero del Lavoro siede il leghista Roberto Maroni. Il 24 ottobre di quell’anno entra in vigore la legge Biagi che poggia sulle modifiche volute dal giuslavorista ucciso dalle Brigate Rosse pcc, il 19 marzo 2002 a Bologna. Le novità più importanti previste sono la flessibilità che – almeno nelle intenzioni dell’epoca – dovrebbe facilitare l’ingresso nel mercato del lavoro, e i contratti co.co.pro. Ovvero il lavoro a progetto, evoluzione del co.co.co già contenuto nel pacchetto Treu. La Cgil bolla subito l’impianto come “un obbrobrio”. Nel 2005 è Bonanni, ancora in veste di segretario confederale della Cisl a difendere a spada tratta la legge: “E’ ingeneroso oltre che falso attribuire la precarietà alla legge Biagi”. Anche se pochi mesi prima si è scagliato contro l’abuso di contratti a progetto: “La vera battaglia contro la precarietà dovrebbe essere fatta contro false partite Iva, associate in partecipazioni, residui di co.co.co. nella P.A. e l’uso improprio di co.co.pro”.
Al contrario, sulle proposte di modifica all’articolo 18 le tre sigle si sono sempre dimostrate compatte, se pur con qualche sfumatura di posizioni. E’ il 2001 e già il ministro Maroni propone di effettuare ritocchi allo Statuto dei Lavoratori. Cgil, Cisl e Uil rispondono con lo sciopero. Si arriva al 2002. Si susseguono in molte città scioperi contro il governo. Il segretario generale Cisl Savino Pezzotta non lascia spazio alle interpretazioni: “Siamo alla cancellazione dei diritti dei lavoratori”. La Uil di Angeletti minaccia lo sciopero generale. Ma a scendere in piazza è la Cgil, dopo il passo indietro di Pezzotta e Angeletti. E il 23 marzo 2002 a Roma circa 3 milioni di persone chiedono di non toccare lo Statuto dei Lavoratori.
Per rivedere una mobilitazione unitaria bisognerà aspettare il 12 dicembre 2011. Le tre maggiori sigle sindacali scendono nelle piazze del Paese contro la riforma Fornero. Lo fanno con uno sciopero generale “soft” di tre ore, mentre al governo ci sono i tecnici guidati dal professor Mario Monti. Proprio nei giorni scorsi Maurizio Landini è tornato sull’agitazione di tre anni fa, bollandola come “cavolata”. Il segretario della Fiom, parlando della coerenza che una certa area del Pd contraria al Job Act dovrebbe avere, ha detto: “Continuare a dire che le cose non vanno bene e poi accompagnare questi provvedimenti è come quando Cgil, Cisl e Uil dissero che la riforma Fornero sulle pensioni non andava bene e poi abbiamo fatto tre ore di sciopero. Abbiamo fatto una cavolata”.
Veniamo all’attualità. In queste ore Renzi sembra aver ammorbidito ulteriormente le posizioni di Cisl e Uil sul fronte articolo 18, finora ritenuto inviolabile da tutti i sindacati. Nel presentare l’impianto della riforma del mercato del lavoro, per cui il governo ha chiesto la fiducia in Senato, il premier ha illustrato anche l’abolizione parziale dello Statuto dei Lavoratori: il reintegro sarà previsto solo per i casi discriminatori e disciplinari. Al tavolo di confronto è stata inoltre indicata la semplificazione delle forme contrattuali, che verranno drasticamente ridotte, anche se è escluso il contratto unico. Ma il governo ha concesso delle aperture alle parti sociali, introducendo nell’emendamento al Jobs Act una norma per regolare la rappresentanza sindacale. Mentre la delega amplia la contrattazione decentrata e aziendale.
In ogni caso la Cgil è irremovibile: “Il giudizio negativo sul modo in cui si sta proponendo l’intervento sul lavoro e troviamo tutte le conferme della necessità della manifestazione del 25 ottobre”. Più disponibile la Cisl. Secondo il neo-segretario Anna Maria Furlan la nuova forma contrattuale a tutele crescenti deve assorbire “tutto il precariato che abbiamo nel Paese”. L’apertura dell’esecutivo è piaciuta anche ad Angeletti: “Siamo in presenza di un cambiamento, di un atteggiamento del governo diverso verso le forze sociali”. Per capire se potranno essere convinti delle loro decisioni, toccherà aspettare qualche anno.