Sono cittadini italiani, vivono a Venezia da quando avevano tre anni, ma per la Fip non sono tesserabili. "Manca un certificato che dimostri come non siano mai stati tesserati per altre squadre". La madre: "E' discriminazione"
Non sono entrati in campo e nemmeno in panchina. Perché le società sportive con cui giocano a basket da anni, i Giants basket Marghera e l’Umana Reyer per tesserarli aspettano un documento dal loro paese di origine che attesti che non sono mai stati tesserati in precedenza. Solo che Marco e Davide (i nomi sono di fantasia) sono due ragazzini veneti. Di origine etiope, certo. Ma adottati dalle loro famiglie quando erano ancora piccoli e arrivati in Italia quando avevano circa tre anni. Difficile giocassero già in una squadra, dunque, vista l’età. E’ proprio sulla procedura scelta dalla Fip per il tesseramento dei bambini nati all’estero che i genitori di Marco e Davide chiedono una riflessione.
“La differenza è netta. Queste procedure di solito vengono chieste ai giocatori stranieri che si trasferiscono – dice Roberta, la mamma di Marco – non ha senso che applichino la stessa legislazione pensata per i giocatori stranieri a dei ragazzini che sono cittadini italiani e che semplicemente sono stati adottati. Non accusiamo nessuno di razzismo ma di fatto in questo modo si mette in atto una forma di discriminazione“. La ratio sarebbe puramente sportiva. “Le federazioni delle singole nazioni vogliono monitorare i bambini nati nel loro territorio – spiega Eugenio Crotti, responsabile nazionale delle giovanili Fip – se uno di questi ragazzini da grande diventasse un grande atleta vorrebbero saperlo per farlo giocare in nazionale. Le tempistiche sono molto lunghe, è vero. Lo sappiamo da tempo e gli scorsi anni abbiamo anche provato ad ovviare alla problematica comunicando a FIBA world, che gestisce tutti i passaggi, che se entro un mese non fosse arrivata risposta avremmo tesserato comunque. Risultato? Ci hanno multati e abbiamo dovuto adeguarci. Ormai si sa che i tempi della burocrazia sono lunghi. Sono le società che dovrebbero muoversi in tempo, la responsabilità è loro”.
E in questo caso non è stato fatto. I documenti sarebbero stati spediti troppo a ridosso del via. Ma non sono gli unici. Situazioni simili in Italia sono circa tremila ogni anno, dai 300 ai 500 in Veneto. “E’ una difficoltà burocratica che si verifica con tutti i ragazzini nati all’estero – dice Francesco Benedetti, responsabile del settore giovanile maschile dell’Umana Reyer – noi dobbiamo spedire le carte e la Federazione italiana pallacanestro chiede di verificare con il paese d’origine. Un’operazione che spesso richiede tempo”. Tant’è, spiegano dalla squadra, che proprio lo scorso anno un ragazzino di origine senegalese ha dovuto attendere per giocare fino a novembre. “A me spiace e francamente interessa poco questo rimpallo di responsabilità, il problema è a monte – dice Roberta – è il regolamento ad essere sbagliato. Va cambiato. E’ un regolamento fatto per i giocatori stranieri. Mio figlio è cittadino italiano. Il cavillo burocratico non ha senso. Non solo. Abbiamo firmato un’autodichiarazione dicendo che non era stato mai tesserato prima. Mi risulta che le autodichiarazioni abbiano valore legale. Benissimo i controlli ma intanto tesseriamoli. Mi sembra paradossale. Anche perché nessuno conosce il suo nome precedente, se non noi. Ricerche di questo tipo non rispettano le leggi delle adozioni. Ma non accade per tutti. Conosco ragazzini nati in Etiopia come mio figlio e tesserati a rugby o calcio a Venezia che non hanno avuto nessun problema di questo tipo con le società”.