Roberto Benigni torna in Rai ed è una bella notizia: un artista vero fa sempre bene, ancor più in tempi di pensiero debole. Due prime serate su RaiUno, 15 e 16 dicembre, che avranno un costo di circa due milioni e mezzo di euro (lo scorso anno per una sola ne prese 1, 8). Racconterà I Dieci Comandamenti. Ieri, nella conferenza stampa romana, ha garantito che nonostante le tematiche scelte è ancora quello di un tempo: “Ho fatto uno spettacolo sulla Divina Commedia di Dante, sulla Costituzione, sull’Inno e ora sui Dieci Comandamenti. Penserete che mi sono montato la testa. Il prossimo anno vi prometto l’esegesi dei sette nani”.
Il talento divulgativo di Benigni, 62 anni il prossimo 27 ottobre, è noto e i dieci comandamenti sapranno sicuramente esaltarlo. Ieri, come gli accade del resto da una quindicina di anni, ha profuso e mitragliato superlativi, quasi che qualcuno gli avesse ordinato (magari dopo l’Oscar) di far media con l’iconoclastia degli esordi: da giovane incendiario sboccato, da grande pompiere ecumenico. E così anche la Bibbia non è stata soltanto tratteggiata come qualcosa di “meraviglioso”, come del resto quasi tutto ciò di cui parla l’ex Benignaccio e oggi San Roberto Quasi Apostolo, ma “il più grande spettacolo per eccellenza”. Diceva più o meno la stessa cosa di Dante, e forse pure di Mameli, ma Benigni è (anche) così: l’esagerazione continua, e l’overdose di enfasi, come bussole privilegiate di una propensione narrativa che si nutre anzitutto di retorica e melassa. “La Bibbia è il libro più famoso del mondo. I dieci comandamenti hanno segnato il mondo intero: sono il riassunto di tutto, sono parole vive che contengono la morale, l’etica. Hanno fatto entrare l’infinito nella vita di tutti i giorni; uno chiede un caffè dopo averli letti e diventa immortale”.
Benigni vanta la capacità rara di tradurre in popolare ciò che è in realtà coltissimo. In questo, e non solo in questo, ha un talento spiccato. Parallelamente a questa beatificazione anticipata di se stesso, e a questo universo parallelo (in cui vive forse solo lui) zuppo d’amor, è però scemata la voglia di mordere. Le risate, laddove presenti, sono deboli e disinnescate. Battute di mestiere, fatte senza entusiasmo né originalità: “Inizialmente volevo fare dieci puntate, una lunga serie tipo Un posto al soleperché ho un grande entusiasmo”; “Con I Dieci Comandamenti per la prima volta si danno delle regole, pensate cosa sarebbe successo se non ci fossero state. Pensate se non ci avessero detto di non rubare, di non ammazzare, di non tradire. Ah ah”; “Tutti sono convinti di conoscere i dieci comandamenti, ma poi molti fanno confusione: ho un amico che è convinto siano ‘non uccidere la donna d’altri, non rubare durante le feste’. Ah ah”; “Il mio comandamento preferito? Lei mi vorrebbe far dire ‘non commettere atti impuri’. Quelli che preferisco sono ‘Adora il padre e la madre’ e ‘Ricordati di santificare le feste’ perché non hanno il ‘non’, non sono divieti. Ma sono tutti bellissimi”. Benigni è in qualche modo trasceso, laddove “Bisognerebbe essere ciechi per non vedere questo abisso di luce, come dice il poeta”.
Ieri ha anche rivelato che sta lavorando al nuovo film (“Siamo nella fase della scrittura del soggetto. È tanto tempo che non faccio cinema, ho molta nostalgia perché tv e film sono mezzi molto distanti”). Sembra un uomo sereno e pacificato. Siamo felici per lui. Ne ha però risentito la sua vena satirica, ormai assente o – peggio – ridotta alla battuta embedded. Ieri Benigni difendeva la Costituzione dagli attacchi di Berlusconi, più o meno in contemporanea ai girotondi di Moretti. Oggi il compagno Nanni insegue il suo placido centro di gravità permanente e Benigni, a proposito di quella Costituzione “più bella del mondo” che Berlusconi sta provvedendo a sventrare in coabitazione con Renzi, si limita a dire: “Mi devo sbrigare a fare i Dieci Comandamenti, vedo che il governo sta cambiando anche la Costituzione. Ah ah”.
Anche le polemiche sulla cancellazione dell’articolo 18 non paiono averlo coinvolto granché: “Per fortuna non siamo arrivati al comandamento 18. È sparito il lavoro e persino la parola, ora si usa ‘ job’, che è una parola molto meno bella rispetto alla nostra”. Del resto, almeno secondo Benigni, Matteo Renzi è di sinistra e dunque va dispensato dalle critiche: “A Renzi gli voglio bene, lo sapete”. Lo sapevamo, certo, ma probabilmente lo avremmo intuito anche senza saperlo. Ieri Benigni ha perfino azzardato un parallelismo sbarazzino: “In fondo anche i Dieci Comandamenti sono la storia di un uomo che, per liberare un popolo disperato, sale sul Colle e chiede informazioni”. Renzi quasi come Mosè: questa, ancora, ci mancava. Una delle critiche che più feriscono Benigni è quella di essere ormai un parente lontanissimo dell’irriverente Cioni Mario.
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Ha ragione quando ripete che non poteva essere monello per sempre: Benigni è stato anzi abile come pochi a divenire, per un tempo brevissimo e quello sì “meraviglioso”, maturo. Oggi, sl netto delle sue molte e perduranti qualità, sembra però un artista irregimentato come tanti. Un ex guitto (quasi) qualsiasi, contento di scodinzolare a comando. Fedele a una linea che non esiste. Disimpegnato per amore, ma pure per quieto vivere. Ci sono intellettuali che non abdicano mai al loro ruolo di coscienza critica e altri che prima o poi si blindano nella casa in collina: fino a qualche anno fa, quell’artista scapigliato che prese in braccio Enrico Berlinguer non pareva mai e poi mai poter appartenere alla seconda categoria.
Ha collaborato Patrizia Simonetti
Il Fatto Quotidiano, 14 ottobre 2014