Una voce che più passa il tempo e più si carica di emozioni, un universo di personaggi "contiani" e sonorità che vanno dai primi decenni del Novecento a un mondo esotico, che poi è il nostro: un ritorno centrato, fatto di nostalgia e ironica leggerezza
Sono passati quarant’anni esatti dall’uscita di Paolo Conte, primo album omonimo dell’avvocato di Asti. Che a vederlo in faccia, magari, un potrebbe pensare, “Solo quarant’anni?”. Perché quelle rughe sembrano stare lì da sempre, al fianco alla sua statura di classico della musica italiana. Invece sono passati proprio quarant’anni da che Paolo Conte è diventato, per tutti, Paolo Conte, quello con il nasone, con il pianoforte jazz incollato alle mani, con il birignao, con i testi colti, ma col refrain che ti si incolla in testa. Per festeggiare questi quarant’anni, Conte, che di anni ne ha settantasette, ha deciso di uscire con un nuovo, corposo, album: Snob. Quindici canzoni originali e mai il termine originale è stato speso con tanta precisione.
Perché in questi quarant’anni una cosa sicuramente Paolo Conte l’ha portata a casa (a parte i grandi successi in patria e oltralpe, i riconoscimenti unanimi della critica e la capacità di percorre la propria strada con successo senza per questo dover scendere a compromessi), e cioè la capacità di mettere in scena una poetica propria, riconoscibile, unica. Una poetica che, a voler essere grossolani, un po’ potrebbe coincidere con il titolo del nuovo album (Snob, appunto), ma che in realtà è tutt’altro che supponente: dovendo scegliere tra snobismo e provincialismo, come il tema affrontato nell’omonimo brano, uno non avrebbe dubbi su da che parte schierarsi.
Sì, perché Conte guarda alle piccolezze dell’uomo di provincia con simpatia, riuscendo a cogliere la grandiosità di questo vivere decentralizzati, con quella sua capacità unica di farne tavolozza, in grado com’è di regalare tutti i colori necessari per dipingere in musica un mondo intero, un universo addirittura. Dire Conte e dire Asti, infatti, è un tutt’uno, anche se in queste quindici canzoni trovano posto caratteristi arrivati praticamente da ogni angolo del globo, dall’Africa dei migranti di oggi (Si sposa l’Africa, brano d’apertura), all’Argentina dei migranti di ieri, noi (nel brano Argentina), alla Genova della signora che guarda a Milano (in Maracas), passando per ragazze esotiche dal sapor di caffè, fino a camionisti peruviani incapaci di parlare, e a tutto quel campionario di personaggi sghembi che solo lui è in grado di mettere insieme.
E se i protagonisti delle quindici tracce sono quantomai contiani, altrettanto si può dire delle musiche, così prepotentemente affezionate a quei suoni distanti dal mercato oggi: dai riferimenti alla musica dei primi decenni del novecento, ormai distante un secolo, di Signorina Saponetta, a quelli più legati alle sonorità di un mondo esotico, che poi è quello che ci circonda, come in Fandango o nella già citata Si sposa l’Africa. Uno sguardo al Sud America nell’orchestrale Tropical, primo singolo dell’album, e nella minimale Fandango, storia di un hidalgo e del suo amore possessivo. Un capitolo a parte meriterebbe la sua voce, più carica di emozioni col passare del tempo: verrebbe da dire nostalgia e ironica leggerezza. Un ritorno centrato, quindi, aspetto scontato nel caso di Conte, ma non altrettanto parlando di musica italiana. E di musica italiana ha parlato lo stesso Conte presentando questo lavoro, lamentando come un tempo i cantautori avessero uno spessore culturale, mentre oggi tutto viene vissuto con più approssimazione. Del resto, provate a immaginarvi oggi, nell’epoca dei talent, un esordiente di trentasette anni come il Conte di quarant’anni fa. Neanche in un libro di fantascienza.