Impavido è stato il direttore artistico Marco Müller ad aver posizionato la pellicola con tale “rischiosa” visibilità, e certa stampa ad averlo accostato all’estetica di cineasti come Wes Anderson, giusto per fare un nome. D’altro canto è il refrain di questo Festival, arrivato alla sua “virata decisiva verso la Festa. E nulla di meglio poteva stare in apertura un film che ci riagganciasse alla fervida stagione della commedia italiana”. Chissà cosa ne penserà uno dei volti più pop e cult della commedia italiana premiato al galà inaugurale per la sua carriera d’attore
Ci vuole un bel coraggio. Se un merito si può attribuirlo a Soap Opera, il film di apertura della 9a edizione del Festival Internazionale del film di Roma (16-25 ottobre) è proprio quello di averne a palate. “Ma io sono pagato per avere coraggio” scherza il regista Alessandro Genovesi, lontano dall’inconsapevolezza delle ovvie critiche in arrivo. Impavido è anche il direttore artistico Marco Müller ad averlo posizionato con tale “rischiosa” visibilità, e certa stampa ad averlo accostato all’estetica di cineasti come Wes Anderson, giusto per fare un nome. D’altro canto è il refrain di questo Festival, arrivato alla sua “virata decisiva verso la Festa. E nulla di meglio poteva stare in apertura un film che ci riagganciasse alla fervida stagione della commedia italiana”, ha ripetuto Müller. Soap Opera è quanto prometteva di essere: una garbata commediola corale sganciata dal reale, “perché non mi piace il mondo che c’è là fuori oggi, quindi lungi da me il rappresentarlo anche al cinema” spiega il regista, che l’aveva inizialmente pensata per il teatro, in quattro puntate. È diventato film grazie alla Colorado Film, alla Wildside e alla Medusa, che lo distribuirà dal 23 ottobre in circa 450 copie.
Chissà cosa ne penserà uno dei volti più pop e cult della commedia italiana, Tomas Milian (nella foto), premiato stasera al galà inaugurale per la sua carriera d’attore. È arrivato a Roma accolto in trionfo, “ritornare in questa città è la mia resurrezione” spiega l’attore cubano, che ha amato il suo personaggio, l’indimenticabile Er Monnezza rammentandone la genesi in un fiume di parole. Su di lui, 82enne, è uscita di recente la biografia (a cura di Manlio Gomarasca – Rizzoli) che l’attore si ostina a citare ed evocare come un flusso di coscienza: “mi ispirò James Dean ne La Valle dell’Eden, mio padre era un mostro e si suicidò davanti a me che avevo 12 anni, la mia famiglia era ricca, borghese e anti Castro, mentre la zia era colta e finanziava segretamente Fidel. Era l’unica a sapere che sarei partito da Cuba verso New York per studiare da attore, ed è stata lei a finanziarmi l’Actor’s Studio”.
Apertura tricolore, oggi, anche per la sezione autonoma Alice nella Città, che ha proposto fuori concorso Mio papà di Giulio Base con un ispirato Giorgio Pasotti nel ruolo di protagonista ma anche di soggettista e co-sceneggiatore. Un film più empatico che riuscito, ma capace per la sua forza emozionale di trasferire i misteri insondabili del rapporto padre adottivo-figlio (piccolo), che si trasforma da “corpo estraneo” a modello ispiratore di vita.
Lontano dall’Italia e soprattutto dalla commedia sono le altre proposte in programma di oggi, giornata speciale in quanto ricorrenza del tristemente noto Sabato Nero che vide nel 1943 il rastrellamento di 1024 ebrei dal Ghetto di Roma. Un appuntamento egregiamente ricordato dalla presentazione del bel documentario My Italian Secret – Gli eroi dimenticati dell’americano Oren Jacoby. Commissionato dal finanziatore italo-americano Joseph Petrella, racconta con un’ibridazione di fiction e di testimonianza documentaria, le gesta di quei tanti italiani che misero in salvo migliaia di ebrei italiani e stranieri da sicuro sterminio. Uno su tutti, l’unico famoso, fu Gino Bartali con le sue segrete “staffette” in bici da Firenze ad Assisi, recando falsi documenti di espatrio per gli ebrei nascosti. Ma con lui si ricorda l’allora primario del Fatebenefratelli sull’Isola Tiberina, Giovanni Borromeo, che arrivò ad inventarsi una malattia contagiosa per nascondere i perseguitati, così come altri innominati preti, suore e persone di buona coscienza che il mondo ebraico ancora oggi annovera come “Giusti”. Presenti a Roma erano il figlio di Borromeo – Pietro – e una delle “salvate”, Gaia Servadio, scrittrice padovana oggi residente a Londra, che non ha nascosto l’emozione di rivedersi “e rivedere la mia famiglia grazie al film. La tragedia dei perseguitati è quella di sentirsi dei diversi; il documentario è un grande insegnamento per il mondo di oggi: pensiamo alle sofferenze attuali del popolo curdo in Medioriente. Ricordiamoci che la fiamma del razzismo brucia senza sosta”. Il film, di grande impatto e celebrato anche dal Presidente Napolitano che ha mandato una lettera “in memoria”, ha avuto il suo degno pendant nella pellicola tedesca Wir sind jung. Wir sind stark (Siamo giovani. Siamo forti) del giovane regista di origine afgana Burhan Qurbani. Si tratta di un film glaciale in rigoroso b/n che rievoca con una certa maestria cinematografica le sommosse di Rostock del 1992 in un clima di nascente neonazismo giovanile e nel caos di una Germania di fresca riunificazione.