L’Italia, da terra promessa a terra da cui fuggire. “Il vostro Paese rappresentava quello che per voi era l’America un tempo”. Altin, 30 anni, è uno dei 1450 albanesi che nel 2011 ha detto addio al nostro Paese per ritornare in patria. “Non ero arrivato col gommone, ma con il traghetto, al porto di Brindisi. Era il 2002, volevo iscrivermi alla facoltà di Legge a Roma. Con me c’erano altri tre amici”. Il problema dell’alloggio è solo il primo di una lunga serie: “È stato difficile trovare casa in centro, chiamavamo ma ci rifiutavano perché eravamo stranieri. Ci siamo dovuti trasferire fuori Roma, a Guidonia Montecelio e poi a Ciciliano, vicino a Tivoli. Tutti i giorni prendevano due o tre autobus per andare all’università. Dopo le 20 non passavano più i mezzi, perciò alla sera non uscivamo mai. E la gente ci guardava male”.

Nel frattempo Altin, originario della città di Berat, conosce Albana, una ragazza albanese, emigrata anche lei per studiare nella capitale. “Mi sono laureata in Economia alla Sapienza. Per fortuna, all’inizio ho avuto l’appoggio di mia zia, che mi ha dato vitto e alloggio ad Albano Laziale. Dopo nove mesi ho vinto una borsa di studio e sono andata a vivere alla casa dello studente”. La situazione diventa insostenibile una volta finita l’università. “Ho fatto diversi colloqui in banca e agenzie di recupero crediti, ma niente da fare. Poi vengo selezionata per un posto in una compagnia assicurativa. Inizio il training per i nuovi assunti ma a metà percorso mi dicono che me ne devo andare perché ho il permesso di soggiorno scaduto. In realtà avevo il cedolino che attesta la richiesta di permesso per motivi di lavoro, inutile”.

Allora trova un escamotage: fingersi la donna delle pulizie di suo cugino, medico, per ottenere al più presto la conversione del documento. I piani però saltano alla svelta. Trova lavoro come cameriera in un ristorante vicino a Piazza di Spagna, per dieci mesi. Intanto continua a fare colloqui e la risposta è sempre la solita: “Le faremo sapere”. Time out. “Avevo perso ogni speranza, quindi io e Altin abbiamo fatto un biglietto per Tirana”.

L’immigrazione “al contrario” è scelta da un numero sempre più alto di albanesi. Secondo l’Istat, nel 2008 quelli che si sono cancellati dall’anagrafe italiana erano 700. L’anno successivo 1025 e quasi il doppio nel 2012. Tornata a casa, Albana trova subito un posto nella direzione generale di una banca austriaca. Altin, invece, dopo la pratica forense, supera l’esame di abilitazione per diventare avvocato. Oggi lavora al ministero dell’Agricoltura. Lei guadagna 500 euro netti al mese, lui 300. “La paga media qui è di 180 euro. Noi riusciamo a mantenerci e non abbiamo bisogno dell’aiuto dei genitori”.

Anche Erdi, nato a Fier, era cresciuto con il mito dell’Italia nel cuore. Partì con due trolley. “Volevo studiare Lingue. Da voi l’università è migliore di quella albanese. Avevo imparato l’italiano guardando i vostri programmi in tv e per due anni avevo lavorato come traduttore per un’associazione italiana che aiuta i bambini”. L’avventura è più difficile del previsto. Erdi si traferisce a Cagliari, dove studiano alcuni suoi amici e per un po’ vive da loro. “Non potevo fare lo studente e basta, avevo bisogno anche di un lavoro per mandare dei soldi a casa e mantenermi”. Per farlo, è costretto a interrompere gli studi. Va a Bologna e per quattro mesi fa il camionista. “Mi pagavano di meno perché ero albanese: 1500 euro al mese contro i 1900 di un italiano”.

Poi si sposta a Milano, ospite di un amico. Da lì a Vercelli: otto mesi, guida il furgone per una ditta edile, che fallisce. Quindi sceglie Rimini: “Mi prende un’agenzia di viaggi, io voglio essere assunto ma loro mi vogliono pagare in nero, allora ho mollato, anche perché mi stava scadendo il permesso di soggiorno e avevo assolutamente bisogno di essere in regola per il rinnovo”. Altro trasferimento, a Venezia: a casa dell’amico dell’amico, che lo assume nella sua ditta. Un’odissea infinita che alla fine lo fa ritornare su sui passi. “Nel 2004 sono ritornato in Sardegna, a Tortolì. Dopo qualche lavoretto ho ripreso a frequentare l’università”.

Grazie al sostegno di gente del posto che lo ha conosciuto e ha creduto in lui. “Sono stati come una famiglia per me, ancora adesso li sento. Io ero musulmano, loro cristiani e senza neanche conoscermi mi hanno dato una mano. Mi ha colpito la loro umanità e mi sono convertito al cristianesimo anche io”. Ma il prezzo per restare nel Belpaese terminati gli studi è troppo alto. “Non potevo continuare a vivere di espedienti e aiuti”.

Così nel 2010 torna in Albania tramite il progetto Odisseo per il rimpatrio assistito, finanziato dall’Unione europea. “Qui ho preso una seconda laurea in lingua italiana e oggi lavoro per un’associazione italiana che si occupa di formazione professionale per i giovani”. “Mi sentivo inutile in Italia dopo la laurea. Ero arrivata addirittura a pentirmi del mio percorso. Quindi ho fatto i bagagli e sono tornata a Tirana, tutta un’altra storia”. Mersila, 29 anni, spiega il perché. “Qui ho tanto da dare, sono considerata una risorsa. Nel giro di poco tempo sono stata assunta in un’ong albanese impegnata nella tutela dei diritti dei bambini. Dirigo il programma dell’Unicef per l’ingresso dei rom all’asilo nido”.

In Piemonte, invece, ha sostenuto 34 colloqui senza successo. “Ho inviato il curriculum a banche, aziende, assicurazioni, perfino supermercati”. Con una laurea specialistica in scienze internazionali e diritti umani, il suo sogno era lavorare per il ministero degli Esteri e fare la carriera diplomatica: “Impossibile se non hai la cittadinanza italiana”. Per non scappare subito dall’Italia ha tentato ogni strada. “Mi sono fatta assumere come badante da mio fratello ma dopo un anno e 9 mesi senza un vero lavoro ho pensato che stavo sprecando del tempo prezioso”. La formazione in Italia però è stata un buon biglietto da visita, “anche se qui ormai tutti i giovani studiano all’estero”.

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