Il tumore al seno resta il big killer numero uno per le donne: «Sono ancora circa 45mila l’anno, in Italia – afferma il prof. Francesco Schittulli, senologo – chirurgo oncologo e Presidente Nazionale della Lilt – le donne che ogni anno si ammalano di carcinoma mammario. L’aumento dell’incidenza del tumore al seno è stata pari a circa il 30% nelle ragazze dai 25 ai 45 anni», incidenza che complessivamente in totale non supera il 15%. Un evento eccezionale, contro natura, che lascia troppi interrogativi sulla presenza di danni da inquinamento ambientale al cosiddetto “esposoma”, cioè ai soli geni espressi nel corso della nostra vita e direttamente oggi chiamati in causa nella etiologia del cancro.
Esistono quindi cause diverse dalla sola genetica e dai soli cattivi stili di vita individuali a provocare un così violento incremento dei casi specie nelle donne giovani.
Un numero crescente di ricercatori, tra cui il sottoscritto, ritiene che sia presente nel nostro moderno ambiente di vita un incremento notevole e non controllato di inquinanti “perturbanti endocrini” (“endocrine disruptors“) certamente in grado di costituire la base etiopatogenetica di tale eccezionale incremento del cancro della mammella, del testicolo e della prostata in tutto il mondo, ma specialmente in quelli dove si registra anche un cattivo smaltimento delle plastiche.
Partendo dagli ultimi 50 anni, siamo ormai arrivati, nel mondo, a circa 300 milioni di tonnellate di plastiche prodotte all’anno, ma ancora non si dà il giusto peso etiopatogenetico ad una possibile correlazione diretta tra scorretto smaltimento delle plastiche ed incremento del cancro in generale e della mammella nelle giovani donne.
Cosa sta accadendo invece in Italia nella corretta gestione delle plastiche? Le norme emanate dal governo in questi ultimi mesi sembrano agevolare enormemente il traffico illecito di rifiuti speciali e sostanze plastiche sia a livello nazionale che internazionale. Infatti, la legge Ce 1013 che prevede chiare norme sull’esportazione, è “raggirata” da norme italiane che di fatto agevolano la vendita di rifiuti speciali senza adeguati controlli di filiera.
Infatti la norma Ce 1013 prevede l’invio di rifiuti verso Paesi terzi purché destinati su impianti che siano conosciuti ed in rispetto della difesa dell’ambiente e della salute. Ebbene il 90% dei rifiuti è destinato o ad impianti inesistenti o verso impianti che non sono assolutamente idonei a ricevere i rifiuti.
Ancora, molto criticabili e in grado di favorire il commercio di rifiuti industriali senza i necessari e rigidi controlli appaiono le norme approvate nella Legge n.116 dell’11 agosto 2014. Facciamo alcuni esempi: sono state apportate modifiche all’articolo 14 dove è stato abolito il comma che prevedeva, per le spedizioni transfrontaliere di rifiuti, il ritorno della documentazione da parte dell’impianto finale e la comunicazione alla Regione. Ancora, sono state approvate modifiche, riportate sempre nella 116 all’art.15, dove i camion che trasportano imballaggi pieni possono essere riempiti da rifiuti una volta portate le merci a destinazione.
E’ vero che si specifica che si deve trattare di rifiuti non pericolosi. Ma chi lo stabilisce il grado di pericolosità: la stessa ditta o impresa?
La storia ormai arcinota della truffa assassina del “giro bolla” delle ditte camorriste dei casalesi non ha insegnato proprio nulla? Per non parlare della modifica che avrebbero voluto portare all’art.234 art.14 b-quinquies dove sotto il titolo di disposizioni urgenti per il settore agricolo per il rilancio delle imprese di fatto si condannano gli agricoltori a pagare il contributo ambientale anche per i prodotti industriali. Infatti, mentre gli industriali vengono dispensati dal rispettare il principio “…del chi inquina paga..”, gli agricoltori no, anzi dovranno pagare molto di più.
Le aziende produttrici dei beni in polietilene, infatti, sarebbero costrette al pagamento di un contributo ambientale molto più elevato: da 15 euro si salirebbe a 140 euro a tonnellata come contributo Conai, con la previsione, per il prossimo mese di gennaio, di un innalzamento a 180 euro. La differenza è esorbitante: il sistema del consorzio Conai costa 60,87 volte in più di quello del consorzio PolieCo. Questo si traduce in un aumento notevole dei costi sostenuti dalle aziende e in una gravissima ed inevitabile ricaduta sul consumatore. Accanto al comparto industriale meno trasparente, danni notevoli verrebbero quindi arrecati al mondo dell’agricoltura.
Con la riduzione del campo di competenza e, al contempo, l’obbligo di svolgere nella sua interezza l’attività istituzionale cui è richiamato dall’articolo 234 del decreto legislativo 152/06 e successive modifiche, il Consorzio sarebbe difatti obbligato a decuplicare l’importo del contributo ambientale spettante ai produttori agricoli, fino ad arrivare ad una quota di 150 euro alla tonnellata.
Con l’aumento del contributo ambientale, infatti è altissimo il rischio di incentivare lo smaltimento illecito dei rifiuti, favorendo il business della criminalità organizzata, che sarebbe agevolata nel sottrarre materiale al comparto del riciclo, già in profondo affanno.
La cosiddetta “Terra dei fuochi“, in questo modo, è destinata ad espandersi, a superare i confini delle aree in cui è circoscritta, per estendersi a livello nazionale, compromettendo l’ambiente, la salute pubblica e decretando di conseguenza l’ulteriore aumento dei costi del sistema sanitario nazionale.
Rivolgiamo quindi un accorato appello alla responsabilità per salvaguardare una filiera virtuosa, e tutelare l’agricoltura e l’attività industriale.
Ponendo al centro dell’interesse il cittadino e la salute pubblica e non le lobbies industriali, ci auguriamo che questo appello venga accolto nell’ottica di perseguire il fine del bene comune ed un sano e sostenibile sviluppo industriale.