“Il metodo dev’essere purissima carne / E non condimento simbolico, / visioni reali & prigioni reali / come si vedono di quando in quando”. Ci vuole un poeta per dire del poeta, ci vuole l’Allen Ginsberg di Sandwiches di realtà per illuminare Il giovane favoloso, l’epiteto del Giacomo Leopardi riscoperto da Mario Martone. Dopo il fortunato approdo alla Mostra di Venezia, l’inchino a Recanati e la sortita all’America trasteverino, oggi è nelle nostre sale, con un desiderio inconfesso: se i Directioners in soli due giorni hanno messo in cima al botteghino il film-concerto degli One Direction, perché i “Leoparders” non possono fare altrettanto?
La Palomar del produttore Carlo Degli Esposti ci crede, spera che i tanti fan under 18 della fiction Braccialetti rossi possano trasferirsi al cinema, per incontrare un altro giovane come loro, solo meno chemioterapico e più favoloso: con lui anche chi di segni meno al box office ne ha ormai le bobine, anzi, i Dcp pieni. Del resto, far peggio dei veneziani – leggi, i film transitati dalla Laguna – è impossibile, e il titolo è fedele a quel che vediamo. C’è del metodo nel lavoro martoniano, nutrito delle Operette morali esplorate a teatro e, ancor prima, del risorgimentale, corale Noi credevamo: qui la Restaurazione impera, l’Italia si duole in silenzio, ma Leopardi non è il gobbetto di Recanati, questo Giacomo rifiuta esplicitamente la “consecutio malorum” storpio – infelice – pessimista cosmico.
Perché Martone, che sceneggia con Ippolita di Majo, spazza via la polvere, le calcificazioni, le sovrastrutture scolastiche, la ignorantissima normalizzazione ex cathedra: Leopardi è nostro contemporaneo, eretico “prepasoliniano”, genio nonostante i tempi o, forse, in virtù di essi. Questo metodo, innestato sui versi-dinamite dell’Infinito, della Ginestra, è purissima carne: la presta, la piega Elio Germano, ma la sua performance non è condimento simbolico, bensì coordinata storica, filologia fisiognomica. Non è la parte per il tutto, quella maledetta gobba, non è il tratto distintivo del poeta, e Germano lo sa bene, la porta con compunzione, sofferenza, ma nessun allarme, nessun aggetto alla faciloneria in platea. No, quel che ci interessa di lui, del film, di Leopardi stesso è la visione, meglio, la visionarietà: nella finale sequenza delle ginestre in cui uomo, natura e cultura si fondono c’è il lascito vivo di una Realtà esperita dal poeta e consegnata ai posteri, a noi.
Senza troppe mutazioni, è ancora tale, realtà: deficienza umana, natura matrigna, cultura (e politica) ottusa, non ritroviamo tutto questo nelle colpevoli alluvioni di questi giorni? Ma soprattutto, e rubiamo il titolo a un recente teen-movie, Noi siamo infinito, perché l’io leopardiano è inclusivo e il suo, il nostro tempo non se ne va. Martone parte da Recanati, ci apre la prigione reale del giovane Giacomo: libri come sbarre, il rapporto on-divago con il conte-padre, l’affetto per sorella e fratello, l’interpunzione mancata con la madre, come, appunto, si vedono di quando in quando.
Poi, la fuga, la Firenze dei salotti buoni e dei cervelli meno buoni, la sbandata impossibile per Fanny, l’amicizia e il sodalizio con Ranieri, la definitiva discesa a Napoli, in cui la visione di Martone si dispiega, intercettando bagliori felliniani sul basso continuo viscontiano. Non è visione didascalica, ma storicamente accurata e proiettata qui e ora: la fotografia di Renato Berta utilizza il chiaro e lo scuro come carta e penna, la musica elettronica di Sascha Ring manda in cortocircuito la memoria corrente di Leopardi. Precursore, precario e presago (sì, Ppp come Pasolini) fu Giacomo, e il film lo racconta come farebbe un amico affezionato e sveglio, non un maestrino col registro aperto.
Il Fatto Quotidiano, 16 ottobre 2014