Assistiamo all’espandersi tumultuoso della cultura del lamento, è diventata ormai un oggetto di conversazione come l’ultimo film di Ken Loach o la nebbia in val Padana. Ma non penso al lamento per la crisi, recentemente promossa a recessione, o per la guerra, o per le nostre istituzioni disonorate, mi riferisco alle meste confidenze sulle proprie e altrui disgrazie, meglio se riferite al passato remoto.
“Pensa la sua mamma …” “e allora il mio papà …” “ in quelle condizioni, poverina, ha dovuto persino prostituirsi …” , “sono cresciuto solo”, “se n’è andato con una più giovane“, “sono vivo per miracolo”, “e cos’altro poteva fare se non farsi mantenere dal primo che incontrava?”, “ Mi ha tamponato un Suv ”, “È stata abusata dal patrigno”, “sono stato toccato dal prete ” “Mi sono bruciata con l’acqua bollente”.
Queste frasi segnano l’inizio di estenuanti e non richieste confidenze ricche di toccanti particolari. Meglio non azzardare commenti: “Forse poteva fare qualcos’altro invece che prostituirsi?” proposi una volta. “E cosa? È facile per te fare la moralista; è poi che male c’è?”. Certo, perbacco. Ma perché si pensa che questi argomenti possano interessare l’interlocutore? Forse perché anche l’interlocutore è socio del club e quindi aspetta solo il suo turno per aprire il rubinetto dei propri disastri? O perché l’interlocutore è presunto senza dispiaceri né problemi e senza ombre nel passato dato che non ne parla?
Probabilmente tutte e due le cose, credo però che la ragione profonda sia un’altra: il disastro interessa molto più della felicità. Ma perché? E perché oggi con questa inquietante frequenza? Dalle ceneri dell’educazione al riserbo è nato questo nuovo diritto allo sfogo e all’autogiustificazione che aiuta a stare meglio, o così si crede.
Il Fatto Quotidiano, Lunedì 6 ottobre 2014