Etici, ma anche no. Negli ultimi 10-15 anni si sono moltiplicati indici di sostenibilità elaborati dalle principali Borse mondiali riservati, almeno in teoria, ad aziende particolarmente virtuose in fatto di rispetto dell’ambiente, tutela dei diritti, trasparenza e correttezza in materia di tasse. Il tutto accompagnato da un profluvio di studi tesi a capire se essere “buoni” convenga anche al portafoglio.
Standard da rispettare e controlli periodici – Nella sfera di sostenibilità i due indici di riferimento a livello globale sono il Dow Jones sustainability della borsa newyorkese e il Ftse4good di quella britannica. Per accedere ai due “club dei virtuosi” è necessario soddisfare alcuni standard in tema di tutela dell’ambiente, lavorativi,di governo societario (corporate governance), pratiche anti corruzione, trasparenza fiscale. Il Dow Jones sustainability seleziona circa il 10% tra i 2.500 più importanti gruppi mondiali quotati e offre anche dei sottoindici che “scremano” ulteriormente i selezionati escludendo le società che producono armi, tabacco o superalcolici. L’indice viene elaborato dal gruppo svizzero Robecco SAM inviando ogni anno specifici questionari alle aziende prescelte. I risultati vengono poi vagliati anche con l’aiuto della società di revisione PricewaterhouseCoopers. Robecco indica alle società dell’indice anche le aree in cui sono possibili miglioramenti e chi non si conforma rischia l’esclusione al momento dei controlli periodici.
Nel “club dei virtuosi” Usa anche banche che occultano capitali offshore – Il Dow Jones sustainability ha da poco celebrato i 15 anni di vita e tra i 16 nomi presenti nell’indice sin dalla sua nascita figurano gruppi bancari come Credit Suisse o Deutsche Bank. Pazienza se il colosso elvetico viene indicato dai rapporti di Tax justice network come il secondo gruppo al mondo (dopo Ubs) nell’attività di occultamento di capitali nei paradisi offshore. Poco importa, poi, che la banca tedesca sia invece costretta ad accantonare centinaia di milioni di euro per contenziosi legali e multe legate a pratiche scorrette o a manipolazione di indici come Libor ed Euribor.
British petroleum è stata invece depennata dall’indice americano (ma non da quello inglese) quaranta giorni dopo il disastro della piattaforma del golfo del Messico di quattro anni fa. Fino al giorno precedente alla tragedia BP era indicata come l’esempio da seguire quanto a pratiche ambientali. Secondo quanto recitava la scheda della DJSI “BP sta guidando i suoi concorrenti verso la sostenibilità aziendale ed è impegnata ad adattare l’industria petrolifera e del gas agli aspetti sociali e ambientali del fare”. In generale la selezione non sembra delle più rigorose, tanto che la vera impresa sembra essere quella di venire esclusi più che il contrario.
Per limitarsi a grandi gruppi italiani fanno parte del Dow Jones sustainability Atlantia, Generali, Enel green power, Saipem, Terna, Campari, Telecom (leader del comprato TLC), Tenaris, Pirelli, Prysmian, STMicroelectronics, Gtech, Intesa Sanpaolo, Unicredit, Monte dei Paschi di Siena, Banco Popolare, Ubi banca, Bper, Exor, Fiat, Cnh, Mediaset, Ferragamo, Tod’s e Finmeccanica, che come è noto produce anche armi. Non manca insomma nessuno dei big di Piazza Affari. Inclusa l’indagata Eni e perfino l’Enel fresca di condanna in primo grado per il disastro ambientale di Porto Tolle.
L’indice di Londra è più severo – Il Ftse4Good londinese è più ristretto e prende in esame 300 indicatori relativi a 14 sotto-aree basandosi esclusivamente su informazioni pubblicamente disponibili: non possono essere dati o informazioni comunicati privatamente dall’azienda come invece accade per il Dow Jones. Un comitato di esperti decide poi se promuovere, rimandare o bocciare l’azienda candidata. Nell’indice londinese sono inclusi anche alcuni gruppi italiani: Enel green power, Cnh industrial del gruppo Fiat e Ubi. Qui, poi, l’Enel è invece in lista d’attesa insieme a Unicredit e Intesa Sanpaolo.
In Borsa nessun vantaggio. Ma finanziarsi può costare meno – Ma essere inseriti in questi indici è un vantaggio? In generale sembra esistere una correlazione leggermente negativa tra sostenibilità e andamento dei titoli. Se si prende a riferimento l’ultimo anno il Dow Jones Sustainability ha messo a segno un rialzo dell’8,5% che si confronta con il +17% dell’S&P 500 (l’indice azionario statunitense più rappresentativo) o con il +19% del MSCI World che sintetizza il comparto azionario a livello globale. Se si estende il confronto agli ultimi 5 anni, l’indice di sostenibilità registra un +32% contro il +87% dell’S&P 500 e il +58% dell’MSCI world. Simili le performance del Ftse4good (+11% in un anno e +40% sui 5 anni) con l’attenuante che quest’indice guarda di più all’Europa e si confronta con i risultati delle borse del Vecchio Continente, meno brillanti rispetto a quelle Usa: l’indice Ftse euro 100 ha registrato negli ultimi cinque anni un +29%, quindi il Ftse4Good ha fatto meglio.
Una recente indagine della Smith School of enterprise and the environment, divisione dell’Università di Oxford, ha provato a mettere ordine tra 190 studi sulla materia e tirato le somme dei benefici che sembrerebbero premiare le aziende che adottando comportamenti virtuosi. Secondo quanto emerge dall’indagine le attività gestite in modo sostenibile avrebbero ormai raggiunto un controvalore di 13.500 miliardi di dollari. Il principale vantaggio per le aziende “ad alta sostenibilità” sembra esser quello di riuscire a strappare un costo del capitale più basso. Riescono cioè a finanziarsi pagando interessi inferiori rispetto alle altre. Anche per questa ragione i risultati operativi superano spesso la media dei rispettivi settori, così come la generazione di cassa.
La sostenibilità come fiore all’occhiello agli occhi del consumatore – I benefici in termini di performance azionaria sembrano invece limitarsi alla sfera dell’ecologia. La percezione nel pubblico di un comportamento particolarmente attento alle problematiche ambientali tende a migliorare l’andamento dei titoli dell’azienda rispetto a quello dei concorrenti. E sembrerebbe vero anche il contrario, come ben dimostra il caso della British petroleum che dopo il disastro del golfo del Messico in Borsa ha sempre fatto peggio dei concorrenti (anche a causa delle spese per sanzioni e riparazioni). Ad ogni modo non sempre è facile cogliere il nesso di causalità e stabilire quanto l’inclusione dell’indice sia alla base dei miglioramenti e quanto questo avvenga semplicemente per l’adozione di pratiche gestionali e aziendali più in armonia con etica e ambiente. In uno studio condotto dalla società di consulenza Accenture, 8 amministratori delegati ogni dieci hanno indicato la sostenibilità come un modo per avvantaggiarsi sui concorrenti e l’81% ritiene che una buona reputazione in fatto di correttezza dell’operato aziendale influenzi a proprio vantaggio le scelte dei consumatori. L’impressione, insomma, è che spesso dietro l’insegna dell’etica si nasconda soprattutto una gigantesca operazione di marketing .