Ad Ismail, vero e proprio infame foucaultiano, cioè uomo del sottosuolo, umiliato dalla vita, abbruttito dal giogo dell’iniquità e dal dispotismo borghese della legge, vengono pignorati il televisore e il frigorifero poiché non ha versato a Aydin ‒ proprietario della casa dove sta a pigione ‒ l’affitto degli ultimi mesi. Ingaggiati da Aydin (che però, anima bella qual è, ne ignora le ‘rudi maniere’: “queste cose le seguono i miei avvocati, io non ne so nulla…”), i ‘riscossori’ picchiano Ismail innanzi al figlioletto che, per vendetta, tirerà un sasso contro il furgone dove viaggiano Aydin e Hidayet, il suo autista, rischiando di mandarli fuori strada.
A partire da queste circostanze s’intrecciano poi tutta una serie di vicende che porteranno Nihal, moglie di Aydin, a donare una somma molto cospicua alla famiglia di Ismail per sanare il sopruso che suo marito avrebbe fatto loro, reclamando un affitto che non erano in condizione di versare. Ebbene, è proprio il plico coi soldi di Nihal (che ‒ raffinato dettaglio ‒ provengono invero da una donazione di Aydin medesimo) a finire nel braciere, gettato da Ismail. Ed è un’Urszene d’intransigente verità, poiché lascia emergere l’insondabile potere di un dannato della terra che, dal fondo della propria abiezione, ha la temerarietà ‒ invincibile perché è quella di un animale già ferito a morte, che non contratta alcuna resa favorevole ‒ di smascherare il perbenismo stucchevole ‒ cioè la malcelata volontà di potenza ‒ del buon samaritano che tramite un’elargizione di denaro pensa di poter nettare il sudiciume che ammanta la sua cattiva coscienza di classe.
Rassomiglia, invece, a un sacrificio arcaico, la scena in cui l’ombra di Aydin s’espande nella foschia notturna aleggiando come un cardo apocalittico, poi varca l’antro del cavallo selvatico, ascolta il suo spasmo opalescente e lo libera, perché si perda nel pallore della notte.
Del film, meglio non anticipare altro. Un accenno particolare va però fatto a Gökhan Tiryaki ‒ direttore di una fotografia livida e marcata, che ha i tratti dell’acquaforte in pellicola (come già in C’era una volta in Anatolia) ‒, a Haluk Bilginer, magnifico nel ruolo ‒ manierato ma narcisisticamente spigoloso ‒ del protagonista, e a Melisa Sözen, che interpreta sua moglie, figura d’irritabile fermezza, biliosa poiché vulnerabile nella sua torre d’impotenza.
Insomma, per chi è toccata in sorte quest’epoca sciagurata, dove patacche passano per capolavori, le sceneggiature, scritte cogli alluci, sorprendono per ingenuità e le immagini, quasi sempre didascaliche, s’affastellano senza alcuna sorveglianza estetica, Winter Sleep è davvero una boccata d’aria fresca. Bravo Nuri Bilge Ceylan, che ci ricorda cos’era il cinema ‒ e soprattutto cosa dovrebbe essere.