Cinema

Festival di Roma 2014, Spandau Ballet in un docufilm. E Gone Girl di Fincher

La band ha presentato Spandau Ballet: Il Film - Soulboys of the Western World nelle sale italiane unicamente domani e il 22 ottobre per Nexo Digital. Sul fronte della qualità cinematografica, oggi il festival ha portato uno dei film più attesi e belli, privo tuttavia di ogni protagonista ad accompagnarlo e dunque voce che ne potesse dar testimonianza

di Anna Maria Pasetti

Si fanno attendere gli Spandau Ballet, manco fossimo ancora in quei magici 80s che li videro tra i protagonisti della fenomenale onda mondiale del Brit Pop, la più massiccia dell’era post-Beatles. Al 9° Festival Internazionale del film di Roma arrivano accompagnando il documentario loro dedicato Spandau Ballet: Il Film – Soulboys of the Western World della britannica George Hencken, nelle sale italiane unicamente domani e il 22 ottobre per Nexo Digital. Ascoltarli in conferenza stampa è un vero e proprio amarcord per le generazioni che nel quinquennio centrale degli anni Ottanta erano quei teenager urlanti diventati ormai patrimonio dell’immaginario comune della mass culture. Vederli oggi ultra cinquantenni ma con la volontà di continuare – il Soulboys of the Western World Tour toccherà l’Italia nel marzo 2015 – offre una certa tenerezza, non priva della consapevolezza che comunque il progetto cinematografico ha uno scopo prevalentemente promozionale al nuovo album e citato tour. Ad ascoltarli in sala c’è anche Red Ronnie con la sua telecamera: nel documentario il nostro musicologo è presente mentre li intervista durante i tour italiani. A parlare sono soprattutto la “mente” degli Spands e unico detentore dei diritti, Gary Kemp e Tony Hadley, l’inconfondibile voce del gruppo. Le loro parole si sovrappongono, sembra stiano ancora litigando, e viene da pensare che forse quella conclamata reunion del 2009 non abbia cancellato antichi malumori.

“Ricordiamo che in Italia abbiamo avuto le fans più pazze del mondo” scherza Tony, sostenuto dal saxofonista Steve Norman: “ai concerti venivano persino i bambini coi nonni!”. Secondo Gary è indubbio che “noi come i nostri contemporanei abbiamo segnato il vero passaggio nel modo di proporre l’immagine dei gruppi pop, contribuendo a quella trasformazione irreversibile dall’era analogica a quella digitale. Oggi le boy band vivono del consumo plurimediale, del web: tutto è orientato alla massificazione contemporanea, non c’è tempo per la sedimentazione, il processo è ultra rapido”. E sulla leggendaria rivalità dell’epoca tra loro e i Duran Duran sorridono con ironia: “Tutti erano nostri rivali, perché tutti volevano vincere.. ed anche oggi che col nuovo album siamo ottavi nella classifica britannica non ci accontentiamo: vogliamo diventare primi!” dichiara John Keeble, il batterista. Profondamente londinesi, dell’area settentrionale attorno a Islington, gli Spandau sono il frutto della working class meno combattiva, ovvero quella che si sarebbe trasformata nel consumismo “usa e getta”, in questo caso musicale. Questo non significa che alcuni dei loro pezzi – da True a Gold, da I’ll Fly For You a soprattutto il magnifico Through the Barricades – non siano rimasti nella storia della musica pop. Di certo il buon documentario della Hencken supera l’immagine e la storia della band a vantaggio del suo contesto storico-politico-sociale e culturale “con gli Spands e le altre band del Brit pop si afferma definitivamente la cultura del videoclip, dell’immagine cool delle pop star”. Interessante e commovente, infine, è la parte del film che si dedica alla loro profonda crisi esistenziale, dettata dall’ego di Gary Kemp che provocò la rottura del gruppo fino a trascinare gli altri membri (ad eccezione del fratello Martin) in tribunale per la spiacevole questione dei diritti d’autore, che egli unicamente deteneva in quanto autore di tutti i brani. Nel 2009 decisero di rivedersi, tentare di ritrovare un dialogo e un’identità: quella che oggi ci hanno portato a Roma.

Sul fronte della qualità cinematografica, oggi il festival ha portato uno dei film più attesi e belli, privo tuttavia di ogni protagonista ad accompagnarlo e dunque voce che ne potesse dar testimonianza. Si tratta de L’amore bugiardo – Gone Girl di David Fincher, nonché il suo più hitchcockiano. Prolifico e indubbiamente straordinario, l’universo creativo del cineasta si conferma con questo nuovo lavoro in ottima forma, portando lo spettatore compiacente e compiaciuto in un gioco di disvelamenti intriganti, quantunque di facile intuizione. Protagonista è una coppia bellissima e apparentemente innamorata formata da Ben Affleck e una magnifica Rosamund Pike, autentica dark lady, che giunge al quinto anno di matrimonio con una sorpresa: l’improvvisa scomparsa di lei. Profondamente “fincheriano”, Gone Girl raccoglie ed elabora svarieti echi dalla sua filmografia, giocando palesemente con il nonsense contemporaneo, e affabulando lo spettatore di puro “guilty pleasure” per 145 minuti che sembrano volare.

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