Le parole di Renato Vallanzasca hanno portato alla riapertura del caso sull'esclusione del Pirata dal Giro '99 a Madonna di Campiglio. L'ipotesi di reato è associazione a delinquere finalizzata alla truffa e alla frode sportiva. Il campione di Cesenatico, però, era già stato trovato con i valori ematici ben oltre i limiti in altre due occasioni
Da quando la Procura di Forlì ha aperto un’inchiesta sul controllo antidoping che, il 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio, scoprì l’“ematocrito” fuori norma di Marco Pantani e lo squalificò dal Giro d’Italia quand’era maglia rosa e dunque favoritissimo a due tappe dal traguardo finale, è ripartita la rumba del grande complotto contro il Pirata. La stessa rumba che si ripropone periodicamente da quando, il 14 febbraio 2004, il campione del ciclismo tricolore fu trovato morto in uno squallido residence di Rimini per un’overdose da cocaina. Da allora i genitori e i fan non si rassegnano alla triste storia di un atleta che fece carriera barando con il doping – come peraltro gran parte dei suoi colleghi del tempo – passando poi, una volta uscito di scena, alle droghe pesanti. Così evocano mirabolanti congiure ed escogitano fantasiose quanto disperate spiegazioni alternative alla prosaica realtà, spalleggiati da una stampa smemorata e sempre a caccia di notizie sensazionali.
Ora, per carità: il procuratore di Forlì Sergio Sottani, magistrato serio e onesto, fa benissimo a verificare i sospetti di mamma Tonina Belletti e le rivelazioni del bandito Renato Vallanzasca (l’inchiesta è aperta contro ignoti per le ipotesi di reato di associazione per delinquere finalizzata alla frode sportiva e alla truffa). La signora ha raccolto le confidenze di Vittorio Savini, vicesindaco di Cesenatico e capo dei Fan Club del Pirata, il quale ricorda di aver ricevuto, il 6 giugno 1999, la telefonata anonima di un tizio con forte accento meridionale che invitava i tifosi a non fare tanto casino, perché “tanto Marco non sarebbe comunque arrivato a Milano”, traguardo dell’ultima tappa del Giro. Il bel Renè invece racconta che un malavitoso suo compagno di cella nel carcere di Opera gli suggerì di non puntare soldi sulla vittoria del Pirata, perché il racket delle scommesse clandestine gestito dalla camorra avrebbe fatto in modo di levare di mezzo Pantani prima della fine del Giro d’Italia per non uscirne “sbancato”. Dunque – è l’ipotesi al vaglio degli inquirenti – l’esame antidoping a tutela dei corridori del Giro (la famosa campagna del Coni “Io non rischio la salute”, cui aderiva anche la federazione ciclismo Uci, per fermare gli atleti dopati che si giocavano la pelle correndo col sangue ridotto a marmellata) sarebbe stato truccato, con uno scambio o un riscaldamento delle provette, per alzargli l’ematocrito (cioè la percentuale di globuli rossi nel sangue) oltre la soglia massima consentita del 50% (addirittura a 51,9) ed eliminarlo da una gara praticamente già vinta. Sarà molto difficile dimostrare una congiura così gigantesca, che dovrebbe coinvolgere decine di persone, nessuna delle quali avrebbe aperto bocca per 15 anni. Anche perché i medici che effettuarono quel controllo sono tutti vivi, e sono fior di esperti e professori del ramo: Michelangelo Partenope, ora dirigente di Ematologia dell’ospedale Sant’Anna di Como, e i suoi collaboratori Eugenio Sala e Mario Spinelli. I quali hanno già ricordato alcuni dettagli di quel test: nella stanza del prelievo, all’Hotel Turing di Madonna di Campiglio, c’erano ben 7 testimoni; la fiala fu portata nella camera d’albergo del medico-capo e subito analizzata insieme a quelle del secondo classificato, Paolo Savoldelli, e di altri 8 corridori davanti ad altri 4 testimoni; l’ematocrito di Pantani risultò “fuori norma”, a un livello di 51,8. La macchina fu ritarata per un secondo esame: ancora fuori norma. Furono subito convocati Pantani, il direttore sportivo e il medico della sua squadra, la Mercatone Uno. Pantani non andò, il ds e il dottore invece sì: e assistettero ad altri due controlli, sempre con lo stesso esito. Il campione e il materiale analitico furono subito sequestrati dalla Guardia di Finanza che li sottopose a perizia per conto della Procura di Trento: perizia che, al processo, confermò l’assoluta regolarità delle analisi.
Ora l’ex medico della Mercatone, Roberto Rempi, obietta che la sera prima aveva testato l’ematocrito di Pantani, che era risultato di 48 e aggiunge: “Se non fosse stato nei limiti, l’avremmo potuto correggere”. Cioè: Pantani e il suo staff si portavano appresso una sofisticata apparecchiatura per le analisi del sangue detta “centrifuga”, dunque temevano i controlli antidoping: altrimenti perché mai un atleta sano, il cui ematocrito medio – come vedremo – era 45, ben 5 punti sotto la soglia massima consentita dal protocollo Coni e Uci, dovrebbe controllarselo continuamente? Un elemento già emerso –come vedremo –al processo di Forlì, ritenuto dal giudice uno degli elementi più indizianti sull’abitudine di Pantani a doparsi, probabilmente all’insaputa dei sanitari della sua squadra e ricorrendo a medici “esterni”. In ogni caso, anche nell’eventualità che l’inchiesta accerti un interesse della malavita a penalizzare Pantani al Giro d’Italia del ’99, o addirittura un’alterazione delle provette nel test del 5 giugno di quell’anno, ben difficilmente riuscirebbe a dimostrare che il Pirata era “pulito”. Cioè estraneo al doping. Giornali e tifosi così eccitati dall’inchiesta di Forlì dimenticano che, purtroppo, non fu quella l’unica volta in cui Pantani fu beccato con un ematocrito abnorme che, insieme ad altri valori ematici coerenti, non si spiega se non con un abuso di Ertropoietina (la famigerata Epo) in dosi da cavallo.
L’andamento a zigzag del sangue ballerino del Pirata è raccontato per filo e per segno dalle carte dell’inchiesta aperta 15 anni fa dal procuratore aggiunto di Torino Raffaele Guariniello sul mega-ematocrito riscontrato a Pantani durante il suo ricovero all’ospedale Cto dopo un rovinoso incidente durante la Milano-Torino il 18 ottobre 1995. Il processo si tenne nel 2000 a Forlì, dove la Cassazione aveva trasferito il caso per competenza in quanto il campione risiedeva a Cesenatico. E si concluse in primo grado con la condanna di Pantani a 3 mesi per frode sportiva; e in appello nel 2001 con l’assoluzione, ma non per una diversa valutazione dei fatti (il doping fu confermato), bensì per una diversa interpretazione della legge nata nel 1989 dopo i primi scandali delle scommesse e scritta con i piedi (i giudici ritennero che la frode sportiva fosse imputabile solo ai dirigenti e ai medici che “dopano” l’atleta, e non all’“autodoping” di quest’ultimo, che in Italia è punibile solo dal 2000: dunque, nel 1995, “il fatto non era previsto dalla legge come reato”).
L’indagine e il processo ruotavano attorno alla consulenza tecnica disposta da Guariniello e affidata ai professori Gianmartino Benzi dell’Università di Pavia e Adriana Ceci dell’Università di Genova, due luminari in ematologia nonché consulenti della commissione scientifica antidoping del Coni: un dossier di 58 pagine che ricostruiva minuto per minuto la storia clinica ed ematologica di Pantani. Già nel ’95, quattro anni prima di Madonna di Campiglio, travolto da un’auto mentre correva la Milano-Torino con i colleghi Dall’Oglio e Secchiari e trasportato al Cto del capoluogo piemontese con una gamba fratturata, Pantani aveva – scrivono i due consulenti – “valori ematologici abnormi”: ematocrito al 60.1%, 20,8 gr. per 100 millilitri di emoglobina, 6.690.000 di globuli rossi per millimetro cubo e ferritinemia (quantità di ferro nel sangue) a 1.500 cioè fuori controllo. Valori “anomali e tutti coerenti fra loro”, giustificabili con “un’unica spiegazione: l’assunzione di sostanze atte a sollecitare l’eritropoiesi”. Vale a dire: eritropoietina, l’ormone vietatissimo agli atleti perché ne altera le prestazioni sportive. Dal dossier, che raccoglie centinaia di documenti fra test ed esami clinici dal 1994 al 1999, per lo più condotti dagli stessi medici di Pantani, confrontati con le statistiche e le medie degli altri corridori italiani, emerge un’autentica “prassi del doping”. Dimostrata anche dai valori ematici contenuti nelle cartelle cliniche di un altro ricovero di poco precedente a quello torinese: il 1° maggio 1995 il Pirata era stato investito da un’auto a Rimini mentre si allenava per il Giro d’Italia e gli fu riscontrato un ematocrito del 57%. Poi, quattro anni dopo, il famoso test di Madonna di Campiglio che gli costò l’ultima maglia rosa della sua carriera e ne segnò l’irreversibile declino.
I suoi avvocati, Fernando Santoni e Bruno Guazzaloca, assistiti dall’ematologo bolognese Sante Tura come consulente di parte, spiegarono i suoi clamorosi sbalzi ematici dopo l’incidente alla Milano-Torino con quattro cause “lecite”: 1) le caratteristiche congenite del sangue di Pantani; 2) la sua partecipazione ai Mondiali in Colombia, in altura, dieci giorni prima, l’8 ottobre ’95; 3) la disidratazione dei corridori a fine corsa, cioè al momento dello scontro con l’auto; 4) la scarsa attendibilità degli esami del sangue effettuati al Cto. Ma i consulenti del pm Benzi e Ceci smontarono tutti e quattro i punti. 1) Dal ’94 al ’99 l’emato – crito medio di Pantani era al 45%, solo leggermente più alto di quello medio (44%) degli altri corridori ciclisti, come risulta dai dati ufficiali del Coni e dell’Uci. 2) Dagli studi sui possibili effetti dell’altura, risulta che l’ematocrito può aumentare al massimo di 3 punti, non certo 15, e che gli effetti durano al massimo 4-5 giorni, non 10. E poi, nell’incidente di cinque mesi prima a Rimini, Pantani aveva già un incredibile 57: senz’aver ancora mai visto la Colombia. Dopodiché saltò il Giro d’Italia e a giugno i suoi medici gli riscontrarono un normalissimo 45. 3) L’effetto disidratazione è smentito sia dai dati ematochimici (sodio, potassio e calcio nel sangue) di Pantani il giorno del ricovero, sia dagli “ematocriti del tutto normali” degli altri due ciclisti coinvolti nello stesso incidente: 40,3 per Dall’Oglio, 46,1 per Secchiari. 4) I due professori, dopo aver interrogato insieme al pm i medici e gli infermieri del Cto, e aver esaminato i macchinari utilizzati dall’ospedale torinese, conclusero che “prelievi e analisi furono effettuati a regola d’arte”. E comunque ilCto poteva aver nulla a che fare con gli sbalzi riscontrati prima a Rimini e poi a Campiglio. La conclusione dei professori Benzi e Ceci era dunque impietosa: anche gli altri valori ematologici, “globuli rossi, emoglobina e ferritinemia, sono assolutamente anomali sia per una persona normale, sia per un atleta di alto livello, sia per lo stesso Pantani”con la sua media di 45%. Anche l’overdose di ferro era un altro “elemento coerente”: la spia di un trattamento ripetuto per compensare gli effetti dell’Epo, che aumenta l’emoglobina, ma necessita di robuste quantità di quella sostanza minerale.
Al processo di Rimini, poi, testimoniò il primario ortopedico del Cto di Torino, professor Massimo Cartasegna. La giudice Luisa Del Bianco gli domandò: “È ipotizzabile che qualcuno abbia somministrato Epo a Pantani a insaputa della struttura ospedaliera?”. E lui rispose: “Sì, anche se mi spiace ammetterlo”. Raccontò che due uomini si erano presentati come medici sociali della squadra di Pantani e seguirono minuto per minuto la sua degenza. Dopo l’intervento chirurgico alla gamba, il campione evidenziava “problemi di sangue strani”: dopo il super ematocrito a 60,1 al momento del ricovero e dell’operazione, nei giorni seguenti Pantani iniziò a manifestare una progressiva anemizzazione. Cioè un crollo verticale dei globuli rossi e dunque dell’ematocrito, che il 22 ottobre (al quarto giorno in ospedale) era sceso a 20, e il giorno 25 era precipitato a 16. Il valore era talmente preoccupante che Cartasegna domandò ai due medici sociali se Pantani avesse fatto uso di Epo. I due “tergiversarono, non dissero né sì, né no”.
La stessa domanda pose a Pantani. E anche lui “non disse né sì né no”. Il 25 ottobre gli fu praticata una trasfusione di due sacche ematiche e “dal giorno dopo migliorò”. Anche perché “qualcuno”, quasi a compensare una sorta di astinenza da Epo, gliene somministrò una dose di nascosto dai medici del Cto. Come se tutto ciò non bastasse, nell’estate del 2013 la commissione d’inchiesta del Senato francese sulla lotta al doping ha pubblicato la sua relazione finale, con una rivelazione sconvolgente: molti ciclisti di vari paesi, concorrenti al Tour de France del 1998, fecero uso di Epo. Compresi i primi tre classificati: la maglia gialla Marco Pantani, il tedesco Jan Ullrich e lo statunitense Bobby Julich. Il dato risulta dai “test retroattivi” svolti nel 2004 dai laboratori di Chatenay-Malabry su campioni di sangue prelevati nel 1998. Eppure, diversamente dal caso di Lance Armstrong e di altri ciclisti dopati, Pantani non s’è mai visto cancellare dagli Albi d’Oro né revocare uno solo dei titoli sportivi conquistati negli anni dell’Epo sospettata e accertata: né dalla federazione ciclistica internazionale, né da quella italiana. Forse, anziché inseguire improbabili complotti e impossibili riabilitazioni, varrebbe la pena di seguire il consiglio di Stefano Garzelli, storico gregario del Pirata: “Lasciamo che Marco riposi in pace”.
da Il Fatto Quotidiano del 21 ottobre 2014