Nei giorni scorsi, in un post dedicato all’alluvione di Genova, citavo un verso di Max Manfredi (“quando piove, piove viola”) tratto da una delle sue canzoni dedicate proprio al capoluogo ligure, Tra virtù e degrado. Ieri, leggendo sul Secolo XIX una lunga intervista a Renzo Piano, un passaggio dell’archistar me ne ha fatto venire un mente un altro. Dice Piano: “C’è un parametro idraulico che si chiama tempo di corrivazione. È il tempo che impiega la pioggia a diventare rivo su un pendio. Se la montagna è coperta di boschi questo tempo può essere di ore, ma se è nuda bastano pochi minuti”. Nel “Fado del dilettante” (qui accompagnato alla chitarra da un altro genovese di sommo talento, Armando Corsi) Max dice più o meno la stessa cosa, con l’icasticità che lo contraddistingue: “Genova città ripida/ Buone gambe per camminare/ Flipper messo in bilico/ Dove rotola un temporale /Città da cantautori /Per i ciclisti è micidiale /Se pisci sulle alture /Mezzo minuto e si inquina il mare“.
Nella Genova raccontata da Max Manfredi, insomma, c’è anche un po’ del dissesto idrogeologico di cui tanto si parla in questi giorni. Ma chi è questo Max Manfredi? È un po’ come quei luoghi di Genova bellissimi e nascosti che la maggior parte dei turisti che da un po’ di anni a questa parte – grazie al traino di Porto Antico e Acquario – si perdono. Luoghi come le piazzette del borgo del Carmine, le funicolari o le creuze che si arrampicano verso i colli, come la Bachernia raccontata da Maurizio Maggiani nel suo “Mi sono perso a Genova”… Porto Antico, Acquario, un po’ di centro storico ma non troppo e poi tutti a casa. Idem per la musica: Fabrizio De André, Ivano Fossati, magari un po’ di Tenco e poi tutti a casa…
E invece la Genova musicale è una landa molto più ampia da scoprire. Non è una scuola, ma un un crogiulo vitale di influenze e talenti, spesso connessi tra loro, che caparbiamente proseguono una nobile tradizione di artigianato artistico. L’ultimo arrivato in ordine di tempo è Zibba, ma sono tantissimi e ne cito solo qualcuno: Cristiano Angelini, Giua, Roberta Alloisio, Federico Sirianni, Augusto Forin, Claudia Pastorino, Franco Boggero…
Max Manfredi è uscito da poco con il suo ultimo disco, che si intitola Dremong ed è stato prodotto dai suoi fedelissimi estimatori, essendo frutto di un’intelligente operazione di crowdfunding. Un disco in cui, come è sempre stato per Max (che ha sulle spalle un’attività ormai trentennale), Genova è raccontata senza indugi folkrostici, ma con una giusta dose di disincantato amore. Genova – autobus, “ostaie”, strade da percorrere di notte – e la sua tendenza all’immobilismo, al “letargo”, alla “noia atroce”, come in “Sestiere del molo”: “Facce in giro come letti sfatti, letto sfatto, la città alle nove / Pensionati leggono i giornali per vedere chi gli sopravvive”.
Ma Genova è soprattutto un punto di partenza per viaggiare in luoghi immaginari e reali, sulle ali della memoria, ma anche della storia e soprattutto della musica: in questo disco si salpa verso Finisterre, Rabat, il Tibet del dremong che dà il titolo al disco (un orso). D’altronde Genova è un porto, da sempre assorbe come una spugna le più diverse influenze («città di correnti», la chiama in una sua canzone). E Max, navigatore sedentario alla Salgari e artigiano della canzone, usa Genova come quinta, ma soprattutto come molo da cui salpare. La nave di Max veleggia dal fado al rock, dalle pianure slave ai calori mediterranei, dal rebetiko alla melodia italiana più classica con una facilità che è pari solo alla sua capacità di mettere nelle parole suggestioni differenti, immagini fulminanti, fonemi scelti con cura certosina alla ricerca della loro sonorità.
Come Genova, Max non è facile da avvicinare. È scostante, richiede attenzione, orecchie e sensibilità accorte. Richiede di lasciare i percorsi più noti, tra Acquario e Porto Antico e di percorrere qualche creuza un po’ in salita, coi mattoni rossi sconnessi. E di fermarsi col fiatone ad assaporare una bellezza più sghemba e ostica, ma della quale poi si fa difficilmente a meno.