L'uomo che ha ridisegnato i limiti dello sport, l'atleta paralimpico che corre con i normodotati, la star delle pubblicità: Ora Blade Runner non c'è più. Tutto dimenticato con l'accusa di omicidio, il processo e la condanna
Il momento è la semifinale della staffetta 4 x 400 ai Mondiali di Atletica di Daegu, in Sud Corea. E’ il primo settembre 2011 e nella batteria dei quattro sudafricani, che poi in finale vinceranno l’argento, c’è anche Oscar Pistorius. Lui poi non correrà la finale, ma ha già vinto, è già entrato nella storia: è il primo atleta amputato che vince una medaglia ai Mondiali in una gara su pista. Blade Runner, così è chiamato per quelle protesi di carbonio che sostituiscono le sue gambe da sopra il ginocchio, diventa icona globale, eroe popolare di un romanzo di sacrificio e riscatto. Ma questo romanzo dura poco, passano nemmeno due anni e Pistorius è arrestato, accusato di avere commesso il più osceno dei delitti, l’omicidio di una donna indifesa dentro le mura domestiche.
Di colpo esplodono le contraddizioni e le miserie di un uomo mai considerato come tale, nel bene e nel male. Lo sfavillante luccichio delle medaglie lascia il posto a un lato oscuro che nessuno aveva voluto vedere. Amputato delle gambe a soli undici mesi per una grave malformazione, Pistorius trova subito nello sport e nell’agonismo la sua strada. Tennis, pallanuoto, rugby, fino a che dopo un infortunio, nel periodo di riabilitazione, scopre la corsa e se ne innamora. Corre fortissimo, fino a fare incetta di ori paralimpici (nei 100, 200 e 400 metri della categoria T44) e a gareggiare in pista in contro i normodotati a Daegu nel 2011 e poi a diventare il primo in assoluto a farlo in un’Olimpiade, a Londra 2012.
In diverse interviste rifiuta l’etichetta di uomo bionico e grida di volersi considerare solo un uomo, ma lo show business sportivo non glielo permette. Diviene icona, immagine pubblicitaria, vive sotto i riflettori. Intorno alla sua persona nasce e si sviluppa il dibattito sull’opportunità di fare gareggiare disabili e normodotati l’uno contro l’altro, sostenendo che con le nuove tecnologie i primi potrebbero avere un vantaggio. E’ usato come cavia in diversi test, fino a che la federazione internazionale di atletica gli impedisce di correre contro i normodotati alle Olimpiadi di Pechino 2008, ma la cassazione dello sport di Losanna lo stesso anno con una sentenza storica ribalta le posizioni. Pistorius non riesce a qualificarsi per correre contro i normodotati a Pechino ma può farlo tre anni dopo ai Mondiali di Daegu. E poi alle Olimpiadi di Londra.
E’ proprio in quegli anni, appena finite le Olimpiadi di Pechino, che passa la prima notte in carcere accusato di violenza su una ragazza. Le accuse cadono. Nessuno si interessa dei suoi rapporti personali, della sua vita privata, fino a che il 14 febbraio del 2013 il problema riemerge in tutta la sua tragicità. Dopo l’omicidio di Reeva Steenkamp, una ex fidanzata dell’atleta, Samantha Taylor, minaccia di rendere pubblici maltrattamenti subiti. Salvo poi ritrattare. Sempre dopo l’omicidio, i vicini della sua lussuosa villa di Silver Woods raccontano di essere stati testimoni di diverse crisi di gelosia, con urla notturne e possibili violenze domestiche. Sempre dopo, tutto si viene a sapere dopo. Il lato oscuro di Pistorius emerge in tutta la sua fragilità e la sua tragicità quando è oramai troppo tardi. Gli sponsor si defilano, le telecamere non chiedono più interviste patinate ma cercano immagini di lui affranto sul banco degli imputati.
E di Pistorius si viene a sapere che era debole, paranoico, ossessionato dalla difesa personale e dalla sua sicurezza. Che era un uomo geloso, possessivo, violento con le donne. Talmente violento da arrivare a ucciderne una, la sua compagna. Tutto questo però si scopre sempre quando è troppo tardi, quando lo show business si defila, i riflettori si spengono e dietro il simbolo costruito a tavolino per l’interesse di altri di una riscossa sovrumana rimane l’uomo. Un uomo che pochi mesi prima dell’omicidio su Twitter scriveva: “Non c’è niente di meglio che tornare a casa, sentire il rumore della lavatrice e, immaginando sia un intruso, entrare in lavanderia in modalità full combat. Waaa!”. Un uomo cui la Nike per l’ultima campagna pubblicitaria aveva pensato il tragico slogan: “I am the bullet in the chamber (Sono il proiettile in canna ndr.)”. Poi, dietro il business patinato dei proiettili metaforici sono partiti quelli veri, e la realtà della vita è emersa come tragedia.