‘Lacayos del Imperio’, lacchè, servi dell’Impero. Con questo epiteto – un classico della (peggior) tradizione leniniana ed anche, passando dalla tragedia alla farsa, uno degli insulti più praticati da Hugo Chávez – il freschissimo rieletto presidente boliviano Evo Morales s’è premurato di qualificare, martedì scorso in un’intervista al quotidiano cileno La Tercera, quattro dei suoi omologhi latinoamericani (il messicano Enrique Peña Nieto, il colombiano Juan Manuel Santos, il peruviano Ollanta Humala e la cilena Michelle Bachelet). Perché mai tanta furia verso quattro colleghi che, con toni ben al di là del semplice protocollo diplomatico, s’erano con lui appena felicitati per il suo nuovo trionfo?
Per molte ragioni, la prima e più immediata delle quali sta ovviamente, come risulta dall’intervista, nella proclamata avversione di Morales alla cosiddetta Alleanza del Pacifico. Ovvero: alla proposta d’integrazione commerciale regionale di recente avanzata da Messico, Colombia, Perù e Cile e da Evo considerata un sordido complotto del ‘libero mercato’. Assolutamente ovvia era tuttavia, dietro la contingenza dell’ingiuria, la volontà di rendere un verbale omaggio, come in una sorta di rito sacrificale, al culto dell’uomo che Morales ha sempre a parole venerato come sua guida ed ispirazione. O, più esattamente: la volontà di confermare sull’unico piano tuttora praticabile – quello del lessico e quello, ancor più aleatorio, dell’ideologia – il suo legame con il ‘socialismo del XXI secolo’. Parole e fatti, insomma, le une contro gli altri armate. Tanto che qualche analista non esclude affatto che alla fine, pragmaticamente valutati i pro ed i contro, la Bolivia di Evo possa entrare nella perfida alleanza ordita dal ‘lacchè’ di cui sopra…
La recenti vicende del Venezuela di Chávez e quelle della Bolivia di Evo Morales sono infatti, da un lato, straordinariamente simili nelle loro premesse politico-ideologiche e, dall’altro, straordinariamente diverse nella loro pratica evoluzione. Tanto Chávez quanto Morales sono arrivati al potere per via elettorale, facendo appello agli strati più poveri ed esclusi della società, al culmine d’un decennio (il cosiddetto ‘decennio perduto’) marcato da una profonda crisi economica, politica, sociale e morale causata da vecchi fallimenti (‘desarrollismo’, populismo, esplosione del debito estero nel contesto d’un sistema finanziario internazionale intrinsecamente iniquo) e, insieme, da nuove a catastrofiche terapie economiche (quelle oggi bollate come ‘neoliberalismo’). Tanto Chávez nel 1999, quanto Morales nel 2005, sono emersi dalle ceneri di sistemi politici disintegrati dalla crisi. Ed entrambi hanno rappresentato, almeno nel loro sorgere, un allargamento della base di democrazie inamidate e corrotte (il ‘punto fijo’ venezuelano) o storicamente fragili e precarie (Bolivia). Entrambi hanno generato nuove Costituzioni ed entrambi le hanno usate per rattrappire (è il caso della Bolivia) o per distruggere completamente (Venezuela) la separazione dei poteri. Entrambi si sono proclamati parte d’una medesima ‘rivoluzione’ e, soprattutto, entrambi sono stati favoriti dal più favorevole periodo economico dell’intera storia latinoamericana. Nessuno prima di loro, in Venezuela o in Bolivia, aveva mai avuto a disposizione tante risorse. E nessuno, prima di loro aveva dirottato tanta parte di queste risorse verso i settori più diseredati della società…
E qui finiscono le similitudini. Anzi: qui le strade di Venezuela e Bolivia – che, pure, continuano a marciare in coppia nel verbosi campi della retorica ‘antimperialista’ – drasticamente si separano. Perché la Bolivia – che pure ha ridotto la povertà più e meglio di quanto abbia fatto il Venezuela – è oggi un paese con i ‘conti a posto’, un’inflazione al di sotto del 5 per cento e la quantità di riserve monetarie (il 48%) più alta del mondo in rapporto alla grandezza del Pil. Un vero e proprio ‘modello’, secondo quello storico simbolo dell’imperialismo che va sotto il nome di Fmi. Ed anche un paese che può guardare con relativa tranquillità al dopo-boom. Il tutto a fronte d’un Venezuela che, più che mai dipendente dal petrolio, vanta oggi uno dei più alti tassi d’inflazione del pianeta e viaggia pericolosamente lungo il ciglio d’un possibile default.
Perché questa differenza? Per molte ragioni, la più importante delle quali è però secondo me questa: sebbene Chávez abbia sempre trattato Evo con il paternalismo e la condiscendenza che si riserva ai figli meno dotati, il socialismo boliviano vanta – grazie soprattutto al vicepresidente Àlvaro García Linera – una base teorica molto diversa, molto più solida e sofisticata di quella del chavismo. Se analizzato a fondo, il pragmatismo boliviano, vera ragione dei successi economici del paese, rivela, alle sue radici, un’analisi approfondita della natura del capitalismo locale (quello che Linera chiama il ‘capitalismo andino-amazzonico) e del suo mancato appuntamento con la modernità. Un analisi, questa, che è per sua natura strutturalmente inconciliabile con il misto di fanfaronaggine e di militarismo che, in un immancabile, rancido odore di caserma, ha sempre caratterizzato il Chávez-pensiero ed il suo più sostanziale derivato: il culto del medesimo Chávez, orrido fantasma del peggior passato latinoamericano.
Un bel tema di discussione per una sinistra (quella di Evo Morales compresa, paradossalmente) sempre più abituata a nutrirsi di slogan.