Continua a calare il numero di aborti in Italia e a rimanere alto quello degli obiettori di coscienza tra ginecologi, anestesisti e infermieri, anche se quei (pochi) che eseguono le interruzioni volontarie di gravidanza sono comunque sufficienti rispetto agli interventi che si fanno: queste alcune delle conclusioni che emergono dalla relazione inviata al Parlamento dal ministero della Salute sull’applicazione della legge 194. Dati che confermano quelli dell’anno precedente, ma che, secondo i ginecologi della Laiga (Libera associazione italiana ginecologi per l’applicazione della legge 194), raccontano una realtà diversa da quella che invece vivono ogni giorno medici e pazienti.

Secondo la relazione infatti, nel 2013 sono state notificate 102.644 interruzioni di gravidanza, cioè il 4,2% in meno rispetto al 2012, e il tasso di abortività è risultato pari a 7,6 aborti per 1.000, con un calo del 3,7% rispetto al 2012. Tante ancora le donne straniere che ricorrono all’interruzione di gravidanza, visto che sono circa il triplo delle italiane, anche se stanno iniziando a stabilizzarsi, mentre l’Italia in Europa è uno dei paesi con il minore ricorso all’aborto tra le minorenni, rispetto agli altri Paesi dell’Europa Occidentale. Più o meno stabile, dal 2005, il numero di aborti clandestini, che secondo i calcoli dell’Istituto superiore di sanità per il 2012 sono stimabili in 12-15mila tra le italiane e 3-5mila tra le straniere.

Il dato più interessante, e a tratti sorprendente, è quello che riguarda invece l’obiezione di coscienza, che pur avendo numeri da capogiro, non provocherebbe sostanzialmente problemi ai colleghi non obiettori che devono lavorare di più né complicazioni alle pazienti. La relazione contiene infatti i risultati del primo monitoraggio su aborti e personale obiettore, condotto dal ministero insieme alle Regioni. Da qui emerge che nel 2012 in media sono stati obiettori più di due ginecologi su tre (69,6%), la metà degli anestesisti (47,5%) e per il personale non medico c’è stato un ulteriore incremento, con valori che sono passati dal 38,6% nel 2005 al 45% nel 2012. Poi ci sono i “picchi” di alcune regioni, come Molise e Basilicata, dove i tassi di obiezione tra i ginecologi si aggirano sul 90% e quello tra gli anestesisti sull’80%. Ma, secondo i dati, le “ivg” vengono effettuate nel 64% delle strutture disponibili, dunque con una copertura “soddisfacente”, tranne che in Molise e nella provincia autonoma di Bolzano. E, considerando il numero di aborti che ogni settimana deve fare ogni ginecologo non obiettore, ipotizzando 44 settimane lavorative in un anno, a livello nazionale ogni non obiettore ne effettua 1,4 a settimana, un valore medio fra il minimo di 0,4 della Valle d’Aosta e quello massimo del Lazio, con 4,2.

Il numero dei non obiettori nelle strutture ospedaliere è dunque “congruo” rispetto alle ivg effettuate, “quindi gli eventuali problemi nell’accesso al percorso – conclude la relazione – sono dovuti eventualmente ad una inadeguata organizzazione territoriale”. Soddisfatta Eugenia Roccella, parlamentare Ncd. “L’obiezione di coscienza – rileva – non rappresenta un ostacolo al ricorso alle interruzioni volontarie di gravidanza. Le criticità segnalate sono dovute alle eventuali inadeguatezze sanitarie delle diverse regioni, ma non si possono usare gli obiettori per mascherare i problemi dell’organizzazione sanitaria locale”. “Favole” secondo Giovanna Scassellati, ginecologa non obiettrice dell’ospedale San Camillo di Roma. “Noi così crediamo alle favole – commenta amara – Il San Camillo fa un terzo di tutte gli aborti della regione Lazio. Nel mio reparto di ginecologia, siamo senza primario, lavoriamo sotto organico e su un sacco di turni. Il problema è che non ci si ribella mai, e quando lo si fa, si viene penalizzati”. Anche i numeri sul carico di lavoro settimanale non collimano con quelli della realtà lavorativa quotidiana, come conferma Silvana Agatone, presidente della Laiga. “All’ospedale Pertini di Roma siamo in tre a fare 80 interruzioni di gravidanza al mese, cui ci sono ad aggiungere gli aborti terapeutici – evidenzia – I dati della relazione sono viziati da una distorsione di fondo, perché monitorano l’offerta e non la domanda. Sappiamo che ad esempio nel Lazio e nelle Marche ci sono ospedali che fanno 2-3 interventi a settimana, costringendo così le donne a ‘emigrare’ in altre strutture e regioni”.

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