Sono passati 147 giorni da quando, era il 28 maggio scorso, Maria Elena Boschi è scesa da un volo di Stato proveniente da Kinshasa insieme ai 31 bambini congolesi adottati da 24 famiglie italiane. Lo sbarco, rimasto scolpito nella memoria collettiva per la treccia sfoggiata dal ministro per le Riforme, venne salutato come la fine di un incubo: dal settembre precedente infatti il governo congolese aveva bloccato tutte le adozioni internazionali.
Le 24 famiglie che hanno riportato a casa i loro figli però sono solo la punta di un iceberg: da allora, altre 130 coppie di genitori (si tratta di una stima, ma la Commissione adozioni internazionali si rifiuta di offrire un dato ufficiale) – la cui adozione è stata convalidata anche dalle autorità del Paese africano – aspettano invano che la situazione si sblocchi. Non solo: devono convivere con il silenzio delle istituzioni, le promesse mancate dei politici e la ferma raccomandazione a non parlare con nessuno, men che meno con la stampa.
Giulia (il nome è di fantasia perché tutti i genitori sentiti hanno chiesto di rimanere anonimi) nel gennaio 2013 ha adottato un bambino di 6 anni. Il mese prossimo ne compirà 8: ha già il cognome dei genitori italiani, ma loro non l’hanno mai incontrato. Giulia e il marito sarebbero dovuti partire alla volta del Congo per portarlo in Italia il 2 ottobre 2013, pochi giorni dopo la partenza di quelle famiglie che poi riusciranno a risolvere la loro situazione a maggio. Anche lei aveva una sentenza definitiva di adozione emessa da un tribunale di Kinshasa, anche lei aveva già acquistato i biglietti aerei e preparato le valigie. Ma quei pochi giorni di distanza nei biglietti hanno fatto la differenza.
Dal 28 maggio, Giulia ha ricevuto solo due email da parte del Comitato adozioni internazionali, l’ente – sotto la responsabilità della Presidenza del Consiglio – che sta provando a districare la situazione con le autorità congolesi. Entrambe si concludono con lo stesso monito: “Le famiglie” agiscano “con prudenza e discrezione”. “Qualsiasi iniziativa personale rischia di pregiudicare il lavoro svolto e in corso”. Tradotto: non parlate con la stampa. Le onlus coinvolte nella vicenda Congo a marzo hanno scritto a Cai (la Commissione per le adozioni internazionali, ndr) chiedendo come rapportarsi con le famiglie in attesa. La Commissione non ha mai risposto. Solo a luglio, durante l’assemblea plenaria degli oltre 40 enti autorizzati alle adozioni (quindi anche quelli che con il Congo non c’entrano nulla), si è fatto un accenno alla questione durante la relazione introduttiva. “Abbiamo avuto incontri bilaterali con alcune famiglie e associazioni”, spiega Silvia della Monica, presidente Cai (per delega di Matteo Renzi).
Alcune, non tutte. Per questo i malumori per la mancanza di comunicazione sono diffusi. L’esempio più lampante è quello dello scorso 26 settembre, quando il Congo ha deciso – anche a causa dell’ennesimo caso di traffico di bambini perpetrato da una famiglia nordamericana – di prorogare sine die il blocco delle adozioni. I genitori hanno appreso la notizia da Internet, grazie agli articoli della stampa africana. Il comunicato di Cai è arrivato solo nel pomeriggio: “Appena ricevuta la comunicazione ufficiale, l’abbiamo girata alle famiglie”, risponde la presidente. In questi mesi varie famiglie hanno cercato un contatto diretto anche con il ministero degli Esteri. Una strategia risultata poco gradita alla Commissione Cai che, a quanto riferiscono enti e genitori, si è “sentita scavalcata”. Come conferma anche il presidente Della Monica: “Siamo l’unica autorità competente, i contatti con le famiglie spettano a noi. Io non mi occupo dei marò”.
Sembrerebbe una questione di gelosia tra le istituzioni, come a maggio, quando si è scritto dei malumori (mai smentiti) del ministro Mogherini perché nell’aereo da Kinshasa le era stata preferita Boschi. “Nessuna gelosia, ma lo sblocco fu merito esclusivo di Renzi che telefonò al presidente congolese Kabila”, risponde Della Monica. Evidentemente il successo superò ogni confine, visto che solo la metà dei 60 bambini lasciati uscire dal Congo erano stati adottati da famiglie italiane, gli altri da genitori di altre Nazioni (all’estero, però, niente passerelle con le trecce).
La strategia della presidenza del Consiglio da allora è rimasta la stessa: ci pensiamo noi. Per questo, durante l’ultima festa nazionale dell’Unità a Bologna, una delle mamme implicate nella vicenda ha risalito la Penisola per chiedere l’intervento dell’unico in grado di sbrogliare la situazione: Matteo Renzi. “Fai qualcosa per i nostri bambini”, gli ha gridato. Lui, come riporta la stampa locale, le ha preso la mano e l’ha rassicurata: “Tranquilla, domani telefono a Kabila”. Forse l’ha fatto. Di sicuro non ha chiamato la madre per esporle l’esito della telefonata.
Da Il Fatto Quotidiano del 22 ottobre 2014