È stato assegnato dal Parlamento Europeo il Premio Sakharov 2014 per la libertà di pensiero. I presidenti dei gruppi politici, all’unanimità, hanno conferito il riconoscimento al ginecologo congolese Denis Mukwege, già insignito di numerosi premi e candidato quest’anno anche al Nobel per la pace. Il dottor Mukwege vive e lavora a Bukavu, capoluogo della regione del Sud Kivu, estremo est della Repubblica Democratica del Congo, al confine con Burundi e Rwanda. Le regioni del Nord e del Sud Kivu sono da vent’anni teatro di una guerra che per numero di vittime segue solo la Seconda Guerra mondiale.
I calcoli non sono semplici, ma tra vittime dirette delle violenze e vittime indirette dovute alla mancanza di cibo e cure, si stimano almeno tra gli otto e i dieci milioni di morti. Una guerra a bassa intensità, ora, ma con fiammate che periodicamente si riaccendono, come il focolaio che da due settimane infiamma la città di Beni, più a nord, con quasi cento morti (tra cui diversi bambini uccisi in maniera orribile) e molti sfollati che abbandonano le proprie case per paura degli assalti dei ribelli. È in questo contesto che opera il dottor Mukwege, 59 anni, specializzatosi in ginecologia e ostetricia in Francia: dopo gli studi, decide di rientrare nel suo paese, lavora a Bukavu in un ospedale che viene distrutto nei drammatici momenti dello scoppio della guerra nel 1996.
Sfollato tra gli sfollati, vede e vive in prima persona le sofferenze della popolazione. Nel 1999 decide di fondare il Panzi Hospital, sempre a Bukavu. Qui hanno trovato cure ma soprattutto accoglienza migliaia di donne sfregiate da vere e proprie torture a sfondo sessuale. Una media di 3500 donne l’anno. “La mia prima paziente – racconta spesso Mukwege – era stata violentata: le avevano introdotto un’arma nell’apparato genitale e avevano fatto fuoco, aveva tutto il bacino distrutto. Pensai che fosse l’opera di un folle, ma nello stesso anno dovetti seguire 45 casi simili”.
Perché le vittime di questo conflitto non sono solo i morti: ci sono anche loro, le donne morte dentro. Vittime non di semplici stupri, ma di sevizie indicibili, che lasciano strascichi a volte perpetui, distruggono l’apparato riproduttivo femminile, annichiliscono la dignità delle donne e annientano il tessuto sociale. Una donna violentata è ripudiata dalla famiglia, diviene uno scarto per la società, spesso non può più essere madre per i danni subiti, e in ogni caso è destinata a una vita senza scopo. Per questo, al suo lavoro di ginecologo, alle operazioni estreme che lo hanno reso uno dei più grandi esperti al mondo nel riparare i danni delle violenze sull’apparato riproduttivo femminile, il dottor Mukwege ha affiancato un’équipe di psicologi, che seguono le vittime e ne curano il reinserimento nella società, magari anche con piccole cooperative che offrano un lavoro e uno scopo per ricominciare a vivere.
Perché lo stupro come arma di guerra è scientificamente adoperato per distruggere la donna, base della cultura, e di conseguenza annientare un’intera popolazione. Non si tratta di crudeltà gratuita, di barbarie fine a se stessa: in gioco c’è il controllo di una delle aree col sottosuolo più ricco del pianeta. Nell’est del Congo si trovano giacimenti di oro, diamanti, altri metalli come lo stagno e il tungsteno, ma soprattutto di quella columbo-tantalite (il coltan) essenziale per tutta la microelettronica, dai nostri smartphone alla tecnologia aerospaziale. Qui sono concentrate la maggior parte delle riserve mondiali. E poi ci sono i giacimenti di gas e petrolio scoperti di recente poco più a nord. Insomma, uno “scandalo geologico”, è stato definito. Troppa ricchezza per lasciarla alla mercé di uno stato corrotto e incapace.
Gli stati vicini, Rwanda in primis e Uganda, armano gruppi “ribelli” che di fatto occupano il territorio e ne sfruttano le risorse, come è da anni documentato da molteplici rapporti delle Nazioni Unite. Ma dietro di loro si muovono interessi occidentali che si contendono il dominio della regione. Come recita un proverbio africano, “quando gli elefanti lottano, è l’erba che soffre”. E di questa erba ha scelto di occuparsi Denis Mukwege, “L’uomo che aggiusta le donne”, “L’homme qui repare les femmes”, secondo il felice titolo della biografia scritta dalla giornalista belga Colette Braeckman, esperta dell’area (non ancora tradotto in italiano). Scelta che ha rischiato di costargli la vita: minacciato più e più volte, nell’ottobre 2012 è fortunosamente scampato a un assalto di uomini armati, che lo attendevano dentro casa, assalto nel quale ha perso la vita un suo domestico, sacrificatosi per difenderlo.
Rifugiatosi con la famiglia prima in Svezia e poi in Belgio, nel gennaio 2013 decide di rientrare, accolto da migliaia di persone festanti, e continua a operare protetto da una scorta. Quello che dà fastidio non è tanto o non solo il suo lavoro di ginecologo, ma la fama mondiale che il dottore ha ormai raggiunto e il suo parlar chiaro e denunciare, in ogni occasione pubblica possibile, quello che accade nel suo paese, sfruttato e lacerato. Di questo hanno paura gli enormi interessi che muovono la guerra nel Kivu.