Intervista al vincitore del premio Sakharov 2014. Ha fondato il suo ospedale nel Kivu, nella parte orientale del Paese dove la guerriglia si abbatte anche sul corpo delle donne. "Arrivano ferite e traumatizzate. Per me non ha prezzo vederle guarite. Il mondo ci aiuti". La sua storia in un libro
Da vent’anni un conflitto insanguina l’est della Repubblica democratica del Congo. La guerra logora il Paese e lo stupro è utilizzato come un’arma da tutti gli schieramenti. Il corpo della donna si è trasformato in un nuovo, insanguinato, campo di battaglia: donne, anche giovanissime, pagano il prezzo più alto sulla propria pelle. “Muganga – La guerra del dottor Mukwege”, edito da Fandango, è il saggio della giornalista belga Colette Braeckman che racconta la storia di Denis Mukwege, il dottore – questo è il significato di ‘muganga’- che ha fondato e dirige l’ospedale Panzi Hospital nel Kivu Sud, il ginecologo che da oltre quindici anni, “cuce e ripara” le donne. E che è stato insignito del premio Sacharov, oltre ad avere ricevuto molti altri riconoscimenti, tra cui il Premio Internazionale Primo Levi e ad essere stato candidato al Nobel per la Pace.
Ascolta le storie delle sue pazienti, quando può prega, s’indigna ma non si rassegna. Al Festival Internazionale di Ferrara il dottor Mukwege ha raccontato a ilfattoquotidiano.it che le donne che arrivano nel suo ospedale “sono estremamente traumatizzate, fisicamente violate e molto chiuse in se stesse. Il primo approccio perciò non può essere di un uomo. C’è sempre una donna che instaura una relazione esclusiva con la paziente. Dopo aver stabilito un rapporto di fiducia si procedere con il check medico: analisi per l’Hiv e controllo delle ferite”. Il primo obiettivo è curare e, se necessario, intervenire chirurgicamente.
Concluso il trattamento medico comincia quello che il dottore definisce il “lavoro difficile”, poiché nessuna ammetterà di avere un problema psicologico. “Sappiamo che c’è un trauma. Per questo l’ospedale si avvale dell’assistenza psicologica operativa. Possiamo stabilire quando una paziente è guarita fisicamente, ma non sappiamo quando potrà dirsi libera da traumi. Ricordo una donna che è stata violentata davanti a suo nipote piccolo. Di tutte le sofferenze patite quella era irreparabile”.
Nel corso degli anni il dottor Mukwege ha ricevuto diversi riconoscimenti per il suo lavoro, tra cui il premio dei Diritti umani dell’Onu. Nel 2012 è stato vittima di un agguato mentre tornava a casa, in pieno centro di Bukavu, in cui la sua guardia del corpo è rimasta uccisa. Grazie all’aiuto della gente del quartiere è riuscito a salvarsi e sfuggire dagli uomini che volevano rapirlo. Da allora la sua vita è cambiata irrimediabilmente: “Non vivo più a casa mia ma in ospedale, non mi muovo liberamente e quando devo uscire ho sempre la scorta. Mi sento come in prigione”.
Eppure la forza delle donne lo fa andare avanti. “Sono le donne che mi hanno sostenuto anche dopo l’attentato e che hanno fatto pressione in tutto il mondo perché io tornassi in Congo a lavorare nell’ospedale. Loro mi vogliono proteggere, insieme ai militari, combattono per i loro bambini, per la comunità, per le altre donne e anche per me. E’ così commovente. Da loro ho imparato a pensare agli altri. Quando riprendono conoscenza, dopo tutto quello che hanno subito, la prima domanda che fanno non è mai per se stesse, mai ‘che ne sarà del mio futuro?’, ma sempre ‘come stanno i miei bambini, i miei genitori o mio marito‘”. Loro non danno solo la vita, la proteggono“.
Nonostante l’orrore che segna la quotidianità di medico e pazienti, Muganga parla anche di sorrisi: “Dopo il trattamento della fistola”, la patologia più frequente tra le sue pazienti, “le donne tornano da me con un sorriso smagliante per dirmi che possono finalmente urinare da sole. Lo dicono sorridendo. Dicono che è come nascere di nuovo. Tutto questo per me non ha prezzo”. E infine il suo augurio: “Vorrei che il mondo ci aiutasse a combattere contro l’impunità, impunità non solo verso i balordi che stuprano ma soprattutto verso chi dà gli ordini di stuprare”.