Nelle pieghe della legge di stabilità che, tanto per non cambiare è scritta (colpevolmente e probabilmente in modo volontario) in modo illeggibile, si annida il taglio dei trasferimenti dallo Stato alle regioni, per circa 4 miliardi di euro, pari al 2,8% della spesa totale. Questa ipotesi ha scatenato il finimondo, con reazioni anche inconsulte, minacce di tagli ai servizi, vesti stracciate e capelli strappati; il tutto mentre la magistratura avanza come un rullo compressore e scoperchia quasi quotidianamente il vaso di Pandora delle spese pazze e degli sprechi.
Al netto del disgusto che si prova nel constatare una resistenza pregiudiziale e generalizzata da parte delle amministrazioni regionali a considerare ipotesi di riduzione di ciò che Renzi ha definito “grasso che cola”, bisogna però anche dire chiaramente che nell’ambito delle proteste dei vari governatori, alcune sono totalmente capziose mentre altre hanno qualche ragione sostanziale.
Le due analisi vanno lette congiuntamente per sgombrare il campo da una delle obiezioni più strumentali addotte dalle regioni al taglio prospettato e cioè che la qualità dei servizi forniti sia direttamente proporzionale alla spesa regionale per gli stessi e che quindi una riduzione della spesa non possa che portare fatalmente al peggioramento delle prestazioni per il cittadino in questo caso ostaggio; non si vede come si possano altrimenti interpretare le minacce venute da più parti, di tagli alla sanità come conseguenza più probabile della riduzione dei trasferimenti da parte dello Stato.
Guardando appunto congiuntamente le due tabelle, si nota con qualche stupore come la Lombardia che è la regione con la minore spesa pro capite è anche quella al primo posto quanto all’indice di qualità dei servizi e che Sicilia, Molise e Calabria, che sono tra le regioni con la spesa pro capite più elevata, sono anche tra quelle con l’indice qualitativo più basso; con ogni evidenza le eccessive spese di quelle regioni non finiscono in servizi eccellenti e neppure accettabili, con buona pace dei governatori.
L’ufficio studi di Confcommercio va anche oltre, cercando di calcolare (pag. 32) quanto ciascuna regione spende di troppo; ciò che si conclude è che se il costo necessario per ottenere una data qualità dei servizi nelle varie regioni fosse omogeneo, poiché alcune erogano qualità peggiore, dovrebbero spendere meno e per ciascuna regione è riportato lo “spreco” che varia dai 655 euro per abitante del Veneto ai 5.400 euro pro capite della Valle d’Aosta; in media nazionale: 1.386 euro per abitante; escludendo i circa 9 milioni di lombardi, sembra che le altre regioni spendano ogni anno in totale circa 69 miliardi di euro di troppo rispetto a quanto e come erogano in servizi.
Per ammissione stessa dl Confcommercio, le statistiche non possono essere prese per oro colato; certamente ci sarebbero aggiustamenti necessari che tengano conto della densità di popolazione delle diverse regioni, (perché il volume delle attività è fonte di riduzione dei costi unitari) e della diversa geografia delle regioni, perché prestare servizi nelle regioni montane è più costoso che nella pianura padana, tuttavia anche concedendo un costo per unità di servizio maggiore in media del 25% rispetto alla Lombardia, il surplus resta drammaticamente alto e nell’ordine di circa 56 miliardi di euro all’anno.
Con questi dati alla mano, risultano abbastanza motivate le proteste ai tagli della regione Lombardia e delle regioni più o meno allineate con essa (Veneto, Emilia Romagna) mentre sembrano ingiustificate e in qualche caso assurde quelle delle regioni più sprecone (Valle d’Aosta, Trentino , Campania, Calabria e parecchie altre).
In sostanza, l’approccio lineare (non si dirà mai abbastanza quanto sia iniquo) potrebbe mettere qualche regione nelle condizioni di dover peggiorare realmente i servizi, mentre per altre si tratterebbe solo di sprecare un po’ meno, ma continuando ad avere una performance molto scadente e a carico dei cittadini delle altre regioni.
Fin qui la conclusione sarebbe abbastanza logica: basterebbe adottare i famosi costi standard e tagliare a ciascuna regione il surplus dovuto alla loro cattiva gestione, lasciando in pace quelle che già si sono date una regolata; purtroppo, però, l’eccesso di spesa delle regioni dissennate viene solo parzialmente da acquisti malfatti di beni e servizi, da trattamenti principeschi dei consiglieri regionali e dal mantenimento di enti ricettacolo di politici amici; come anche per le spese dello Stato, la gran parte dei costi è retribuzione di lavoro dipendente e uno dei motivi di differenza tra le regioni è che alcune retribuiscono per le attività il personale necessario per le stesse (anche con un po’ di grasso), altre semplicemente erogano ammortizzatori sociali mascherati da posti di lavoro e questo fa lievitare i loro costi a parità di servizi.
Si potrebbe obiettare che anche prendersi cura del sostentamento economico dei propri abitanti è un dovere primario di ciascuna regione e ciò è senz’altro vero, anche se sarebbe più logico che ciò fosse fatto a carico della fiscalità generale di tutta la nazione, ma in un momento nel quale ci si interroga sulla necessità di provvedere sussidi di disoccupazione a tutti e si conclude che non ci sono le risorse per farlo e mentre ci si dice che il modo miglior per rilanciare economia e far crescere il Pil è quello di abbassare le tasse sulle imprese ma non si riesce ad andare oltre una lieve diminuzione dell’Irap dal 2015 mentre di fatto è stata aumentata per il 2014, lasciare la libertà ad alcune regioni di amministrare i loro ammortizzatori sociali “sommersi” e individualmente più costosi di un sussidio di disoccupazione, mentre si mettono alcune regioni nelle condizioni, forse, di ridurre i servizi, suona oltre che iniquo anche strategicamente perdente.
Ma, certamente, il taglio lineare è più facile da pensare e imporre che non l’analizzare, il distinguere e lo scontrarsi pesantemente con quelle regioni alle quali si dovrebbero chiedere sacrifici significativi rispetto al trantran consolidato.