Li abbiamo visti incatenati ai palazzi del potere. La loro storia relegata a pochi trafiletti sui giornali o, più raramente, accolta sui divanetti di qualche talk show televisivo. Li abbiamo ascoltati mentre raccontavano i loro sacrifici, di essere abbandonati dalle banche o inseguiti da Equitalia, mentre la mafia continua a minacciarli. I testimoni di giustizia sono persone che hanno subito un reato o vi hanno assistito e hanno trovato il coraggio di parlare ai magistrati. In Italia sono in tutto 80, mille se si considerano anche i loro familiari. I loro problemi sono tutti contenuti nella relazione approvata ieri all’unanimità dalla Commissione parlamentare antimafia: “E’ un lavoro innovativo che porterà presto a mettere a punto un progetto di legge”, ha annunciato la presidente della Commissione Rosy Bindi (nella foto con il magistrato Nicola Gratteri).
Nella relazione, la Commissione Antimafia chiede allo Stato di proteggere i testimoni senza costringerli ad abbandonare le loro case, di accordare loro una diversa tutela economica e un più costante supporto psicologico e giuridico. La commissione chiede di definire una volta e per tutte la figura del testimone e di distinguerla nettamente da quella degli ex mafiosi che collaborano con la giustizia. Ma per evitare usi strumentali della legge e figure borderline, la relazione propone anche di valorizzare qualità e contenuto delle denunce e, contemporaneamente, di attenuare l’esperienza traumatica del processo assumendo le dichiarazioni prima e non durante il dibattimento, quando in aula sono presenti i mafiosi e i loro parenti.
“I testimoni di giustizia sono persone speciali, perle rare – spiega il deputato Pd Davide Mattiello, con un passato nell’associazione Libera di don Ciotti e relatore del testo approvato in Commissione – per loro però non esiste una legge ad hoc. La norma esistente è nata nel 1991 e pensata per i collaboratori di giustizia, ovvero i pentiti”. È da questa errata sovrapposizione tra testimoni e “pentiti” che derivano i cortocircuiti del sistema e la sofferenza di chi ha semplicemente denunciato. La stragrande maggioranza dei testimoni è infatti costretta ad abbandonare casa e lavoro per essere nascosta in località protette, assistita dallo Stato a singhiozzi, spesso in maniera insufficiente o con grandi ritardi. E anche quando rimane a casa, al momento 17 testimoni in tutto, deve rinunciare definitivamente al tenore di vita precedente e abituarsi spesso all’isolamento sociale e affettivo.
Non solo. “Un’attenzione particolare va rivolta alle donne di mafia – spiega Mattiello – che devono sentirsi riconosciute dalla legge e non, come oggi succede, essere riconosciute solo di fatto”. A oggi sono 23 quelle che hanno lo status di testimone di giustizia e a due di loro, Rita Atria e Lea Garofalo, è dedicata la relazione “perché hanno perso la vita cercando libertà dalla mafia e giustizia”. Ora la Commissione è al lavoro per tradurre la relazione in progetto di legge.