Doppia coda al mio ultimo post, da più d’un commentare giustamente ritenuto ‘troppo sommario’ nella definizione delle diversità ‘politico-teoriche’ che – pur in un medesimo contesto economico, e pur con la comune premessa d’una analoga retorica ‘antimperialista’ ed ‘anticapitalista’ – ha portato il Venezuela di Chávez-Maduro e la Bolivia di Morales-Linera a risultati decisamente contrapposti. In una crisi che va di giorno in giorno aggravandosi, il primo, e sulla cresta dell’onda – con la benedizione del Fmi – il secondo. Rimedio, a scanso di equivoci, non con uno, ma con due post (uno per paese), per evitare nuove ‘sommarietà’ e per restare nei limiti di spazio imposti a tutti i blog da Il Fatto.
In termini di teoria politica il Venezuela è, in effetti, abbastanza semplice da raccontare. Perché, qui con Hugo Chávez tutto comincia e, in effetti, con Hugo Chávez tutto finisce. La leadership, anzi, il culto d’un solo uomo – quello, per l’appunto del ‘comandante supremo’ ora divenuto ‘eterno’– è, in questo caso, l’unico punto fermo, la costante d’una equazione teorica che ha conosciuto nel tempo molte varianti, o meglio, molti corollari, tutti scartati non appena s’approssimavano, a discapito dell’assoluta preminenza del ‘supremo’, allo stato di teoria politica. Una storia, questa, ben delineata dalle sorti di quelli che sono stati i principali mentori politici d’un leader che, per sua natura, non poteva ammettere altri mentori che se medesimo: il comunista Luis Manuel Miquilena ed il sociologo tedesco Heinz Dieterich.
Il primo – un vecchio eroe della resistenza contro la dittatura di Marcos Pérez Jiménez – fu per molti aspetti il ‘creatore’ di Hugo Chávez, l’uomo che convinse della praticabilità della via democratica il carismatico tenente colonnello golpista del ’92, conducendolo poi alla vittoria elettorale dell’99 ed alla svolta dell’Assemblea Costituente (di cui Miquilena fu brillante presidente). Il secondo fu (o meglio, è) il riconosciuto teorico del ‘socialismo del XXI secolo’, nuova via marxianamente incentrata (sintetizzo) sulla sostituzione del valore di mercato con il valore del lavoro, in un contesto nel quale il socialismo, liberatosi dei suoi vizi ‘statalisti’, è destinato ad incontrarsi con un liberalismo che s’è a sua volta scrollato di dosso il fardello del capitalismo. L’uno e l’altro – Miquilena nel 2002, Dieterich nel 2007 – costretti poi ad allontanarsi, con più o meno pronunciato orrore, dal ‘frankestein’ che avevano contribuito ad assemblare, non appena avvertirono come il culto del grande leader andasse assorbendo (ed annullando) ogni altra variante teorica o pratica.
Tutto sommato, le tracce più profonde da altri lasciati nel ‘Chávez-pensiero’ – se esistono tracce che non siano, in perfetta circolarità, il Chávez-pensiero medesimo – non sono né quelle di Miquilena, né quelle di Dietrich, ma quelle d’un più antico ispiratore dell’ ‘eterno’: l’argentino Norberto Ceresole, legato ai ‘carapintada’ di Aldo Rico e fervente negatore dell’Olocausto, dal cui pensiero – fondato sull’iper-leaderismo d’un ‘caudillo’ capace di sintetizzare l’unione tra popolo e forze armate – chiaramente traspaiono le radici fasciste del peronismo. Chávez s’è molto discretamente allontanato da Ceresole – senza mai rinnegarne le teorie – intorno al 2004, quando la sua ombra antisemita aveva cominciato a diventare fonte di grande imbarazzo per il presidente della Repubblica Bolivariana. Ma l’idea dell’iper-leader è rimasta la vera (unica) fonte della ‘union civico-militar’ – e di quel ‘Alto Comando Civico-Militar’ – che è tuttora, a dispetto della Costituzione, parte integrante della filosofia del regime. E proprio a questo – alla natura essenzialmente e brutalmente militare delle idee che hanno sospinto il processo venezuelano – mi riferivo nel precedente post, laddove scrivevo (cosa che ha molto contrariato i commentatori più affini al ‘supremo’) dell’ ‘odore di caserma’ che (da sempre, ma oggi più che mai) il chavismo va esalando.
Al comandante ‘supremo ed eterno’ il governo venezuelano ha oggi tra l’altro dedicato – ed inaugurato con tutta la solennità del caso – un ‘Instituto del Altos Estudios del Pensamiento de Hugo Chávez’, diretto da Adán Chávez, fratello dell’iper-leader scomparso. Ed interessante sarà vedere, adesso, quanto davvero ‘alti’ riusciranno ad essere studi che, come riferimento, non hanno – oltre ai dogmi d’un culto essenzialmente fondato sulla mistica falsificazione della storia del Venezuela e di quella personale di Hugo Chávez – che i discorsi e le maratoniche esibizioni televisive del grande leader. O, al massimo, quel progetto di riforma costituzionale che – sconfitto nelle urne nel 2007 – il comandante supremo aveva molto pomposamente chiamato “nuova geometria del potere”. Ma dal quale altro non emergeva – oltre la pretenziosità del linguaggio ed una grandeur a tratti grottesca – che la volontà di potere del ‘grande geometra’ (vedi qui un articolo da me scritto all’epoca e qui il documento in questione).
Questo il retroterra ‘teorico’ del disastro economico (e politico e morale) venezuelano. Tutt’altra storia è, invece, quella della Bolivia di Evo Morales e di Àlvaro García Linera….