Il signor Umberto Tiberio e suo figlio Claudio hanno deciso di fare una cosa bellissima in questo fine di vendemmia 2014. Fra i filari delle viti biologiche d’Abruzzo hanno creato la scritta “No petrolio” su un fianco di collina. Per chi arriva da lontano, è impossibile perderla. Prima la scritta era immerse nel verde, poi con l’inoltrarsi dell’autunno è cambiata di colore ogni giorno. Fra un po’, con la potatura e la nudità dell’inverno non resterà più niente. Quel che invece resterà è lo spirito di questa regione che continua, dal piccolo al grande, a resistere ai petrolieri in tutti i modi possibili.
Negli scorsi anni ci sono stati presepi, recite, spettacoli musicali e corse podistiche contro il petrolio, ed è stato bellissimo vedere la comunità trovare occasioni per stare insieme e per dire no alle trivelle. Ci sono gli scettici che dicono che queste piccole-grandi azioni non servono a niente, che Renzi e Letta e Berlusconi e Prodi hanno già deciso, che i petrolieri sono più forti. Può essere, ma secondo me non c’è niente che possa resistere ad un popolo bene informato che sappia far valere i propri diritti in una democrazia sana. E questo non vale solo per l’Abruzzo o per la Sardegna che ha appena finito di celebrare la sua vittoria contro la Saras dei fratelli Moratti. E’ un fenomeno globale.
Qualche tempo fa su Pnas (Proceedings of the National Academy of Science) è infatti comparso un articolo a firma di Daniel Franks e dei suoi collaboratori del “Centre for Social Responsibility in Mining” dedicato agli effetti delle proteste dei residenti e dei cittadini su progetti di petrolio, cave e miniere. In sintesi si afferma che le proteste sono spesso effettive, costose per i signori delle multinazionali, e quando bene organizzate portano a modifiche nei progetti, e non di rado alla bocciatura degli stessi.
Franks ha analizzato 50 proposte di interventi ad alto impatto ambientale in tutto il mondo ed è emerso che in almeno metà di questi la popolazione si è opposta, organizzandosi e dando filo da torcere agli speculatori. Nel 30% dei casi, i progetti, alla fine, sono stati bocciati proprio a causa delle proteste.
Fra gli esempi citati la Minas Conga in Perù e la miniera di bauxite Lanjigarh in India, bocciati non perché tutt’a un tratto politici e azionisti hanno capito che gli impatti ambientali e sociali sarebbero stati enormi, ma perché le proteste sono state così forti che è stato impossibile per loro andare avanti.
Lo studio di Franks rivela anche che le proteste più efficaci sono quelle che si organizzano durante gli stati iniziali dell’iter autorizzativo, prima della costruzione in sé e per sé. Quando infatti i lavori sono già iniziati, il capitale degli investitori è stato già riscosso e sono stati promessi lucri e guadagni, gli speculatori rispondono alle proteste con maggiore cinismo, perché la posta in gioco è più alta.
Meglio allora partire presto. La chiave di tutto, secondo Franks è Internet. Grazie al passaparola virtuale e al fatto che ci si può organizzare in remoto, leggere in Perù di cosa accade in Canada, e magari contattare attivisti e giornalisti di altre nazioni, è facile e così si riesce a creare una rete inimmaginabile anche solo un decennio fa.
Franks aggiunge che i danni economici dei possibili ritardi dovuti alle proteste sono in media di 50 mila dollari al giorno per progetti petroliferi ancora sulla carta, di più per quelli in itinere o più grandi, come le miniere.
La morale della favola, che viene fuori da Pnas e dall’esperienza vissuta in tutte le parti del mondo è che il nostro impegno quotidiano è importante e utile e porta a risultati. Che sia su Facebook, che sia su una collina d’Abruzzo, che sia in una canzone dialettale, l’importante è non tacere e usare le nostre multivariegate voci e talenti per il nostro territorio.
E’ interessante che lo stesso giorno che il signor Tiberio rendeva pubblica la sua foto dei vigneti d’Abruzzo, nel North Dakota petrolizzato si parlava di campi di grano soffocati da 4 milioni di litri di petrolio disperso un anno fa e che nessuno sa come ripulire. Un disastro.
Eccolo qui il North Dakota al petrolio – meglio le colline verdi d’Abruzzo, io credo.