“Una donna può studiare ma non può esprimere un pensiero originale” affermò un mio paziente senza nemmeno paura di essere strangolato: doveva sembrargli un concetto ovvio. A un recente convegno di psicoanalisi un rappresentante
istituzionale della categoria ha aderito a questa scuola di pensiero osservando come il costante aumento delle donne psicologhe ridurrà inevitabilmente la nostra materia all’ “accudimento”, al sostegno e all’orientamento, a scapito della ricerca e della dimensione scientifica.
Fantastico esempio di come la misoginia abbia cambiato forma adattandosi al presente. Nessuno borbotta più: “taset se no te moeret” come a Milano o “che la piasa, che la tasa e che la staga in casa” come nel nord est, ma si constata non senza amarezza l’inevitabile degrado delle professioni intellettuali nella misura in cui finiscono in mani femminili.
A quel convegno ero fra gli oratori e non potevo attaccarlo subito, ma nella discussione successiva ai nostri interventi, nessuna donna dalla platea sollevò obiezioni. E anche io – presa da scoramento – decisi di tacere. E me ne voglio per questo. Dovremmo reagire ogni volta, invece, anche quando ci sembra tutto troppo stupido perché ne valga la pena. Avrei dovuto dire a quel collega che la misoginia è una patologia pericolosa ma che impegnandosi si può guarire, avrei dovuto chiedergli quale contributo avesse offerto lui alla ricerca e avrei anche dovuto proporgli di vergognarsi per la sua ignoranza del lavoro scientifico e teorico delle donne nella nostra professione.
Non deve passare che le donne avvocato si occupano di diritto di famiglia, le donne medico di pediatria e ginecologia e le psicologhe di orientamento e sostegno e se invece fanno i chirurghi d’urgenza, le penaliste, le giuriste o se fanno teoria nella psicoanalisi non sono credibili e si fa finta di niente.
Il Fatto Quotidiano, Lunedì 13 ottobre 2014