Da un lato il Jobs Act, dall’altro la piazza della Cgil. Da un lato l’esaltazione del lavoro mobile, “light”, con vaghe promesse di tutele, dall’altro la difesa del Contratto a tempo indeterminato e lo slogan: aboliamo la precarietà. Ma per chi oggi ha venti, trenta, o quarant’anni, è difficile decidere da che parte stare, specie se nessuna delle parti ti rappresenta veramente. Alla Leopolda, affollata di giovani sì, ma in fondo con cospicui stipendi da dipendenti pubblici, si discute di come rendere più flessibile il lavoro a tempo indeterminato. Dall’altra parte, di come difenderlo, restando comunque all’interno dello stesso universo semantico, quello del lavoro a tempo indeterminato, appunto. Esattamente come i talk show, dove si dibatte di Tfr in busta paga e di 80 euro per i “lavoratori”, senza neanche specificare – a rifletterci ha dell’incredibile – che si sta parlando di “lavoratori dipendenti”.
Eppure là fuori, nel mondo del lavoro di oggi, giovani e meno giovani con partita Iva, microsocietà, lavoro a prestazione d’opera, mini-contrattini di pochi mesi, lavori stagionali, stage e via dicendo, i problemi sono altri. Il primo, sicuramente, è ottenere un’occupazione retribuita, non camuffata sotto le sembianze dello scambio perverso tra lavoro e arricchimento di esperienza da mettere nel curriculum oppure, specie in territori editoriali, tra lavoro e visibilità pubblica (segnalo qui l’articolo di una collega).
Ma se il primo passo, essere in qualche modo pagato, è relativamente facile il secondo è molto più arduo. Perché non è vero che oggi il lavoro manchi. Al contrario ce n’è tanto, per tutti, di sicuro per chi abbia voglia di fare, intelligenza e magari una buona formazione alle spalle. Il problema è che è retribuito poco, troppo poco per rispondere alle esigenze reali di una persona, ai suoi bisogni concreti. Oggi è difficile trovare un laureato o una laureata che non abbiano un’occupazione: se andate a vedere come vivono, al contrario. scoprirete che il lavoro occupa quasi tutta la loro mente e quasi tutte le loro giornate: peccato che in cambio non dia reddito, o meglio ne dia veramente troppo poco per vivere, regalando a chi lo fa una costante sensazione di frustrazione e insoddisfazione che non dipende da fantomatici conflitti interiori o psicologici, ma è semplicemente una conseguenza di un sistema dove lo scambio tra prestazione e retribuzione è diventato drammaticamente impari. Dove ce la puoi fare se magari vivi ancora in famiglia, o ricevi qualche sussidio familiare, oppure magari rinunci a un figlio e punti alla semplice sopravvivenza della tua persona.
Risolvere il problema del lavoro sottopagato è molto più difficile che discutere di art. 18 e dintorni. Perché lo sfruttamento è spesso invisibile, perché tutto dice ai giovani lavoratori senza reddito che dovrebbero essere già contenti di avercelo, un lavoro, anche se non gli basta per fare quasi nulla. Ma è molto più difficile, infine, perché per farlo bisognerebbe non solo discutere su come creare più lavoro dipendente, o a come cambiarlo per renderlo più appetibile, ma soprattutto su come ridare diritti a chi è fuori da quel mondo. Sembra incredibile, ma persino nell’universo post fordista, post sindacale e post socialdemocratico della Terza Repubblica (renziana), questo tema non è ancora al centro dell’agenda pubblica.