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Canada, l’attentatore è ‘uno di noi’

Ci sono molte domande senza risposta circa le motivazioni che hanno spinto Michael Zehaf-Bibeau a compiere l’attacco al Parlamento canadese. La domanda è più o meno la stessa che nell’aprile dello scorso anno si pose Barack Obama a seguito degli attentati alla maratona di Boston, quando si chiese come due ragazzi (i ceceni Dzhokhar e Tamerlan Tsarnaev), da anni residenti nel Massachusetts, avessero potuto covare tanto odio nei confronti del Paese che li ospitava da oltre un decennio.

Tra i due episodi vi sono infatti diverse analogie. Ad esempio oggi sappiamo che Zehaf-Bibeau era stato inserito nella lista nera dei “viaggiatori ad alto rischio” e gli era stato ritirato il passaporto. Anche Tamerlan, 18 mesi prima di colpire, era stato classificato in un database della Cia grazie a una segnalazione da parte delle autorità russe. Sia Zehaf-Bibeau, sia i fratelli Tamerlan erano inoltre di religione islamica, il che – prima e dopo – ha dato spazio in poche ore a un circolo di speculazioni mediatiche. Giornali e network di mezzo mondo hanno aperto le proprie edizioni con titoli capaci di massimizzare lo choc sociale così come le decapitazioni portate avanti dall’Isis nelle ultime settimane. Artifici mediatici in grado di rievocare facilmente la crudezza degli attentati dell’11 settembre.

Sia Bibeau, sia i fratelli Tsarnaev, vivevano anche crisi personali e circoscritte ad un contesto familiare. Il primo aveva in precedenza collezionato una lunga serie di precedenti penali; in una testimonianza un suo amico lo ha definito “strano”, ricordando come spesso parlasse della presenza di Shaytan, la parola araba per Satana, nel mondo. Allo stesso modo, i due fratelli ceceni nelle descrizioni emerse a seguito della strage di Boston erano apparsi psicologicamente molto fragili. Il più grande, Tamerlan, in numerose lettere inviate alla madre aveva scritto di essere disposto a morire per l’Islam.

Ciò che è certo è che prima dell’attacco al Parlamento di Ottawa e, prima ancora, delle bombe alla maratona, Michael Zehaf-Bibeau e gli Tsarnaev erano persone qualunque, con i loro amici, la scuola, Internet e una famiglia, molto spesso lontana. Dietro di loro – stando perlomeno ai dati attuali – non c’era e non sembra esserci alcuna organizzazione terroristica.

Quel che si è visto fino ad oggi è che i due non erano molto diversi da altri centinaia di giovani che si disegnano addosso un profilo estremo per correre dietro alla propria identità. Questo non esclude che possano essere stati dei soggetti pubblicamente pericolosi, ma è vero che le “ragioni” di questi uomini fanno da contraltare alle violente e ripetute provocazioni del pastore Kerry, o alle disgustose scene che in passato hanno ritratto le truppe Usa urinare sui corpi senza vita dei combattenti talebani.

Su Zehaf-Bibeau molto deve ancora essere chiarito, ma in generale possiamo dire che molti di questi ragazzi musulmani spesso educano la loro fede religiosa attraverso la Rete, vuoi perché sono giovani e vuoi perché le loro radici culturali distano migliaia di chilometri. Sono inesperti come lo sono i “nostri” adolescenti, e così rischiano di cadere in un’interpretazione della religione islamica che condanna i miscredenti con lo scopo di creare una comunità esclusiva che non può essere sconfitta con la sola forza delle braccia.

Di fronte a questo scenario la comunità internazionale ha la possibilità di svolgere un ruolo costruttivo. L’imam Anwar al-Awlaki, considerato fino alla sua morte uno dei successori di Osama Bin Laden, è ancora influente nei suoi numerosi sermoni diffusi sui principali forum jihadisti. Le autorità Usa lo hanno ucciso con un attacco drone nello Yemen nel 2011. Se ne avessero denunciato le ricchezze guadagnate dallo sfruttamento della prostituzione, come lui stesso ammise, probabilmente ne avrebbero distrutto l’immagine che molti giovani fedeli in cerca di un esempio oggi hanno dell’Islam.