Chi troppo e chi niente. Nell’epoca storica in cui gli italiani vengono svegliati dai cinguettii del Presidente del Consiglio, che spesso finiscono per fare le veci di decreti legge che si lasciano fermentare per mesi nelle cantine dell’oralità, c’è chi delle nuove tecnologie sembra non essersi proprio accorto. La presbiopia a cui si fa riferimento è nello specifico quella della Protezione Civile, che nelle ultime due settimane è stata decisamente nell’occhio del ciclone a causa dell’inadeguatezza dimostrata durante l’ultimo alluvione a Genova.
Franco Gabrielli, capo della Protezione Civile, il cui operato è stato messo fortemente in discussione per impreparazione, vaghezza e mancanza di tempestività, sembra ignorare totalmente l’esistenza dei social network. La sua assenza su piattaforme come Twitter o Facebook colpisce non poco, se si considera che una delle qualità incontestabilmente attribuibili a questi servizi di rete è la velocità.
Dando per assodate le responsabilità varie che Stato, governatori, sindaci, burocrazia di gesso, abusi edilizi, previsioni meteorologiche sbagliate e chi più ne ha più ne metta, si dividono tra loro, terminata la ronda dell’assegnazione delle colpe, resta il tempo per mettere in luce aspetti che non hanno ancora sfilato sotto l’occhio di bue ma che hanno anche loro dell’incredibile. Com’è possibile che mentre la dipendenza da social network impazza nel dibattito culturale, mentre ci s’interroga sui potenziali danni sinaptici ad una generazione che arriva a trascorrere fino a quindici ore davanti al computer, mentre articoli come il celebre “Google ci rende stupidi” di Nicholas Carr catalizzano l’attenzione della scienza tutta sul sequel tecnologico dell’evoluzione darwiniana, proprio in quelle situazioni sulle quali i social network potrebbero costruire la loro difesa, dimostrando tutta la loro utilità, si preferisca ignorarli?
La Protezioni Civili delle singole regioni per la maggior parte non possiedono nemmeno un profilo Twitter e le poche che ne hanno uno sono seguite al massimo da qualche centinaio di persone, tradendo così un’inanità di base della pagina. Visitando il sito ufficiale della Protezione Civile appare immediatamente evidente che i social network non sono utilizzati come assi nella manica al fine di “tutelare l’integrità della vita, i beni, gli insediamenti e l’ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da catastrofi e da altri eventi calamitosi e diretta a superare l’emergenza”: stupisce questa refrattarietà quando un minimo comune multiplo determinante come il ‘tempo reale’ costituisce la caratteristica principale per entrambi.
Immediatezza, microcapillarità e ubiquità costituiscono potenzialmente una ricetta vincente per il pronto intervento, e la Fema, (Federal Emergency Management Agency) in America ne ha dato prova in diverse occasioni. Eppure le contraddizioni in seno al nostro bizzarro paese vengono fuori in tutte le forme possibili: se è vero che dal 1992 con la legge 225 la Protezione Civile diventa “Servizio Nazionale” ed è coordinata dal Presidente del Consiglio dei Ministri, stupisce che il twittatore supremo si dimentichi in una delle occasioni in cui avrebbe realmente un’utilità di far cinguettare l’emergenza. Perché se Google da un lato rende stupidi (chissà…), dall’altro sarebbe pronto, così come Facebook e Twitter, a collaborare e a formare dipendenti e volontari all’educazione digitale: basterebbe che il pensiero oltre ad essere ormai unico, ogni tanto fosse anche lineare.