Mi sarei inventato tutto. Questo è in sostanza cosa dicono gli avvocati che difendono i membri della Commissione Grandi Rischi nel secondo grado del processo de L’Aquila, in merito alla consulenza tecnica che ho svolto per l’accusa (dalla quale il giudice ha tratto il nesso causale su cui ha motivato la condanna di primo grado). Mi sarei inventato tutto; insieme ai miei concittadini e ai Pubblici Ministeri.
Ma perché quegli esperti – che in questi giorni ricorrono in appello – sono stati messi alla sbarra e condannati, in un processo subito definito storico e che ha destato un interesse internazionale? In Italia e nel mondo quasi tutti pensano che si sia trattato di un “mancato allarme”. Uno scandalo. Ci mancherebbe, certo che sarebbe uno scandalo degno di un paese medievale condannare degli scienziati per non aver previsto il terremoto de L’Aquila. Certo, ma le cose non stanno così. Lo scandalo c’è, ma sta nel fatto che le istituzioni scientifiche hanno fomentato una mistificazione mediatica che ha riguardato prima i capi d’imputazione e poi le stesse motivazioni della sentenza, che non concernono affatto una questione di “mancato allarme”, ma, all’opposto, riguardano l’aver rassicurato la popolazione aquilana prima del terremoto, persuadendo la città che le continue scosse non avrebbero dovuto destare preoccupazione, poiché la sequenza sismica in atto sarebbe stata un segnale positivo: un innocuo sciame sismico che scaricava benevolmente energia, evitando così un terremoto distruttivo. Invece il 6 aprile 2009 il terremoto non ebbe riguardo per l’autorità di chi una settimana prima ne aveva previsto l’assenza: com’è noto arrivò, e uccise oltre trecento persone (e sappiamo che i morti non sono stati 30.000 perché migliaia di edifici si fermarono sulla soglia del crollo).
In tal senso, nella consulenza che ho svolto per l’accusa, dopo aver chiarito la differenza tra il “non prevedere (un terremoto)” e il “prevedere (un non-terremoto)”, ho spiegato le conseguenze di quelle rassicurazioni nella loro capacità di ingenerare una rappresentazione sociale di non pericolosità della situazione. Una rappresentazione altamente persuasiva proprio in quanto scientificamente autorevole, che si diffuse in città propagandosi in molti strati della cultura antropologica locale, arrivando non solo ad anestetizzare la paura e gli istinti di fuga, ma a soppiantare i saperi che, nella plurisecolare storia sismica de L’Aquila, raccomandavano la prassi precauzionale di uscire dalle abitazioni in caso di forti scuotimenti.
Quindi ci fu chi morì per la combinazione di tre concause: 1) arrivò un terremoto distruttivo; 2) alcune case crollarono; 3) alcuni, una volta incorporata la rassicurazione pseudoscientifica del “non-terremoto”, non uscirono di casa a seguito di due forti scosse ravvicinate che avevano preceduto di un paio d’ore quella fatale. Poiché diminuire la percezione del rischio aumenta l’esposizione al pericolo, quell’atto di “rassicurazionismo” istituzionale ha di fatto amplificato la mortalità del terremoto distruttivo.
Adesso, all’ombra del martellante inganno mediatico che scambia le vere ragioni dell’accusa con la rappresentazione propagandistica dell’assurdo “processo alla Scienza” per non aver previsto il terremoto, gli avvocati che difendono gli esperti in appello affrontano il nodo reale dell’accusa: le rassicurazioni disastrose. Lo affrontano evitandolo, affermando – appoggiati perfino dall’Avvocatura di Stato – che le rassicurazioni non sarebbero imputabili agli esperti: se le sarebbero inventate i media locali. A sostegno di questa tesi talvolta è stato impugnato il verbale della riunione della Commissione, che non presenta frasi rassicuranti. Vero. Peccato che quel verbale fu preparato, firmato e pubblicato a terremoto già avvenuto, una settimana dopo la riunione (rivelando a ben vedere un’attendibilità pari a quella di una schedina compilata a partite terminate).
Soprattutto però l’innocenza degli esperti viene costruita a partire da una narrazione che occulta gli enunciati compromettenti presenti in una valutazione-comunicazione del rischio che fu – oltre che palesemente arronzata – del tutto sibillina e contraddittoria: in una strategia di framing, chi prende le difese della commissione occulta le parti compromettenti e dà visibilità solo alle affermazioni non rassicuranti. Il problema è che, se la responsabilità di queste persone va dimostrata selettivamente evidenziando gli elementi di colpevolezza, la loro innocenza andrebbe provata confutando tali elementi, non coprendoli con una contro-selezione di frasi corrette compresenti nella loro comunicazione. Che un assassino sia innocente non lo si dimostra raccontando i giorni in cui non ha ucciso; come pure di fronte a una scena del crimine non si può pretendere che vi sia rettitudine nel coprire il pugnale insanguinato con gli oggetti non compromettenti che vi sono intorno. E qual è qui il “pugnale insanguinato”? Si tratta di diagnosi e intenzioni rassicuranti partite – mentre la città era scossa da una sequenza sismica che durava da mesi – già prima della riunione aquilana degli esperti; di un messaggio d’insieme prodotto sullo sfondo di un complesso intreccio di biopolitica del rischio al quale quella riunione pose un colposo suggello di autorevolezza, nell’aurea di un cerimoniale scientifico. Eccolo:
– La dichiarazione di una ricercatrice Ingv secondo la quale le scosse di quei giorni avrebbero dovuto tranquillizzare, perché segno di «energia del sottosuolo che viene rilasciata diluita nel tempo» (febbraio 2009).
– Un comunicato dell’Ingv che descrive la sequenza sismica in corso come uno “sciame”, «senza una scossa principale e relative repliche» (marzo 2009).
– Le intercettazioni dell’allora capo della Protezione Civile Guido Bertolaso, dalle quali emerge che la riunione fu convocata per inscenare un’«operazione mediatica» allo scopo di«tranquillizzare la gente» inviando a L’Aquila «i massimi esperti di terremoti» per persuadere la cittadinanza che «è una situazione normale, sono fenomeni che si verificano, meglio che ci siano 100 scosse di 4 scala Richter piuttosto che il silenzio perché 100 scosse servono a liberare energia e non ci sarà mai la scossa, quella che fa male» (Bertolaso ha negato la paternità di questa diagnosi pseudoscientifica inequivocabilmente rassicurante, testimoniando di averla appresa proprio dai sismologi, i quali negano risolutamente, in un palese scaricabarili).
– La dichiarazione dell’allora vice capo della Protezione Civile Bernardo De Bernardinis, secondo il quale la «comunità scientifica» avrebbe confermato una «situazione favorevole» data da uno «scarico continuo di energia» (rilasciata ad un’emittente locale immediatamente prima della riunione della Commissione, quindi percepita dalla popolazione come inerente alla stessa).
– Il fatto che dalla bozza del verbale emersa durante il processo risultino le seguenti affermazioni: «Escluderei che lo sciame sismico sia preliminare di eventi» (Enzo Boschi);«questa sequenza sismica non preannuncia niente» (Franco Barberi).
– L’audio della conferenza stampa indetta dopo la riunione, dove De Bernardinis dichiara, a nome della Commissione, che «non ci si aspetta una crescita della magnitudo».
Tutto questo dimostra che quella diagnosi rassicurante non fu inventata dai media, e suggerisce che si potrebbe essere di fronte a un fatto di “malascienza” a cui sta seguendo un atto di forza per innalzare una barriera d’impunità istituzionale attraverso una strategia di costruzione politica della realtà. Se lo Stato è (co)responsabile, riuscirà a compiere il civile atto di condannarsi?